Finalmente, come un parto plurigemellare che tardava a compiersi, è arrivato anche il nostro report dell’Unknown Festival 2013. Ricordi quanto ad agosto ti abbiamo annunciato in pompa magna la nostra partecipazione? Ecco, adesso arrivano anche i relativi voti.
E non saranno voti qualsiasi. Se da un lato ci tenevamo a sviscerare act dopo act pregi e difetti della prima edizione di un Festival tuonante, dall’altro volevamo farvi sapere che non siamo partiti da soli, ma all’interno di una carovanata di gente così composta: due meravigliose donne appassionate di elettronica fino al midollo di cui una è la sottoscritta. Due straordinari uomini sulla trentina con gli interessi di un settantenne in pensione, tra cui grappa e cibo, che alla fatidica domanda delle relative madri ”cosa-vai-a-fare-in-Croazia” hanno rispettivamente risposto:
Maschio numero 1: ”Vado ad un rave”.
Maschio numero 2: ”Vado ad un festival di artisti indie emergenti”.
Con questa doverosa premessa, inizio il mio viaggio alle 8:00 del mattino di Giovedì 12 Settembre: gli ultimi sprazzi d’estate nello zaino, un’app per il cambio facile kuna-euro che pure ci ha fottuto e un’incredibile voglia di gustare l’ultima rustichella mediterranea della stagione sono i miei punti fermi della partenza.
L’Unknown è definitivamente uno dei migliori festival a cui mi sia capitato di partecipare nell’ultimo periodo. Temporalmente collocato alla fine dell’estate in modo da poter essere facilmente venduto alle orde di universitari inglesi ancora orfani dei corsi universitari (vi ricordo che l’organizzazione del Festival era totalmente inglese, con le crew di Hideout, Field Day e Warehouse Project al completo), si svolgeva all’interno di un camping park dalla vista mozzafiato e smisurati ettari di natura incontaminata.
Cinque i palchi tra cui vagare alla ricerca di suggestioni: il Main Stage quello che mi ha tenuto incollata per la maggior parte delle serate grazie alle esibizioni di un Four Tet sorprendente per l’energia profonda capace di emanare dalle casse annientando il mio iniziale pregiudizio ”probabilmente-mi-farò-mezz’oretta-di-sonno”; di un SBTRKT magistrale nel mixare James Blake con i Little Dragon e poi ancora con quella meraviglia di traccia che è Made To Stray dei Mount Kimbie; di due Modeselektor insaziabili nel dispensare grandi classici dei loro set come Evil Twin con le più recenti produzioni Moderat. Non è mancato il live dei Disclosure, abilissimi nell’arte di tirare fuori da un solo album 14 singoli, meno bravi nel gestire laptop e strumenti sul palco. Tuttavia, il fatto che gli ascoltatori conoscano a memoria ogni parola, mi fa venire in mente certi concerti dei Subsonica che in Italia hanno rappresentato il climax dell’underground portato alla mercé del grande pubblico e mi sento subito spaesatamente giovane.
Chiudono il cerchio del main stage le performance di Julio Bashmore, impeccabile aizzatore di folle che a mio avviso ha osato un po’ poco non andando oltre i suoi successi più noti come Au Seve e Battle For Middle You, e un intergalattico Jon Hopkins, beccato solo di sfuggita dopo il rientro dalla Boiler Room Island in cui abbiamo trascorso il venerdì pomeriggio. Ecco, parliamo un attimo della Boiler Room Island. I miei amici (rosiconi) non ne potevano più delle pubblicazioni social di video, status, commenti al riguardo, ma, credetemi, once you go boiler room, you never go back. Provo a descrivervi la paradisiaca situazione in cui ho versato, per altro priva di qualsiasi stupefazione artificiale, per cinque ore consecutive volendone ancora, e ancora: un’isola incontaminata poco distante dal camp Amarin, intorno un azzurro accecante che fondeva cielo e mare, vegetazione come se non fosse mai arrivata la Rivoluzione Industriale, un centinaio di persone da copertina di rivista indie X senza la benché minima intenzione di farsene un vanto, e al centro di tutto questo un b2b memorabile tra gli Optimo e Jackmaster, oltre che un set strappa costume di Craig Richards (ah, già, perché in tutto ciò si poteva fare il bagno e si girava in short inguinali).
Gli altri palchi avevano da offrire line-up altrettanto interessanti, soprattutto il Forest Stage a cui ci siamo affezionati dopo la prima sera: John Talabot ci ha consegnato nelle mani un set inaspettatamente techno, forse anche a causa dell’orario tardo a cui l’hanno piazzato; Cyril Hahn le sue soulful vibes intrise di anni ’90, Ame e Dixon hanno portato alta la bandiera Innervision, mentre Joy Orbison riceveva il testimone da Talabot senza quasi far accorgere il pubblico del cambio mani.
Ma un buon festival non è fatto solo di scelte azzeccate nella direzione artistica, si vede soprattutto dalla cura che si ha nei confronti di un pubblico internazionale che ha macinato chilometri per essere lì. Navette gratuite ogni mezz’ora, prezzi onesti per consumare, cibo a tutte le ore, un sito internet curato e pulito dove reperire informazioni (peccato solo sia stato trasformato in una piattaforma di live streaming appena iniziato il festival rendendo impossibile consultare la line-up), gente educata a rispettare gli altri nonostante il giustificabile stato di alterazione (peraltro bassissimo).
Tuttavia, e qui ritorniamo alla premessa iniziale, l’esperienza mistica di un festival può avere una connotazione molto diversa se ci trascini dentro un amico che di elettronica non capisce una sega e all’idea di essere sotto palco a fare ressa preferisce quella di appollaiarsi sull’amaca della zona relax.
Ecco, dunque, il suo report da profano osservatore di fauna da club. Scoprirete che alla fine siamo più d’accordo di quanto potreste immaginare.
a cura di Antonio Giovanni Raffaele Severino, senza virgole (@SuonatoreJones)
Due mesi fa: “bello questo sito, anche il trattamento delle foto stile Lomo merita. Peccato che non conosca nessuno di quelli che suonano”. Poi, il mese scorso: “Sì mamma, vado con degli amici in Croazia, ci facciamo qualche giorno di mare e poi andiamo a dei concerti. Boh, sono artisti nuovi. Musica indie, credo”.
No, mia madre non conosce la musica indie. Comunque la storia che sono finito all’Unknown Croatia un po’ per caso è vera. È anche vero che non conoscevo NESSUNO degli artisti in line-up. E che la musica elettronica, fondamentalmente, mi fa schifo. Ma ci sono stato e mi è piaciuto. E voglio tornarci.
Vi spiego perché.
Fino a ieri non sapevo chi fossero i Disclosure (il gruppo pop della musica elettronica, mi dicono). Figuratevi i vari Jackmaster, Four Tet – eccetera eccetera, non sto mica qui a fare elenchi… Ora, non vorrei fare la figura dell’ignorante musicale. Per dire, so benissimo che MDMA non è la marca di tavole che usa Charlie per fare surf, e che Special K non parla dei cereali (almeno, così ho letto su Yahoo! Answer). Sono rientrato dalla Croazia un po’più abbronzato e con alcuni insegnamenti. Anzitutto musicali: c’è musica elettronica bella, che puoi ascoltare anche se non sei “high”.
I festival come l’Unknown sono più tranquilli e meglio organizzati di nome_locale_milanese. Navette a iosa da centro di Rovigno al luogo del festival (un parco affacciato sul mare a pochissimi km). Nevette gratuite, chiaramente. I pagamenti all’interno dell’area dell’Unknown potevano essere fatti solo con una tessera tipo carta ricaricabile che foraggiavi attraverso casse dedicate.
Per non sbagliare io e un amico abbiamo caricato 400 kune (un drink fra le 30 e 40 kune, circa 5 euro) – solo per la prima sera – immaginando chissà quale luogo di perdizione. A me la custodia della preziosa tessera, a lui le chiavi di casa. Come non perdersi in situazioni del genere: imparato.
E invece, come vi dicevo, niente luogo di perdizione.
Immaginate 10.000 persone (di cui il 90% inglesi) sorridenti e tranquille, prese bene come dicono a Milano. Molte, a dire il vero, addirittura salutiste: era la sagra delle bottiglie di succo di frutta e bibite gassate (mi riservo di approfondire la questione).
Altra cosa che ho imparato: l’Unknown non è il posto dove bere bene, quindi se avete voglia di un brugal e coca o di un moskow mule, non è il posto che fa per voi. Ma se avete voglia di divertimento, semplicità, niente dress code, niente file (neanche per i bagni, anche perché essendo su un parco vista mare…), gente tranquilla, stage su stage su after su boat party e feste parallele allora siete nel posto giusto.
Rovigno è bellissima, soprattutto la parte vecchia “in alto”; la zona del porto è molto turistica, anche se una foto da pubblicare su Instagram è d’obbligo: ‘na ventina di like li prendete sicuro.
Se poi volete fare pace con il mondo e rilassarvi, vi consiglio gli scogli di Punta Corrente/Zlatni, nella zona sud. Era la mia oasi vista mare, dove ricaricare le batterie, pensare agli amori mancati, all’inglesina con cui avrei potuto limonare ascoltando i Modeselektor la sera prima, al viaggio “Giappone in Aprile” che non pianificheremo insieme. Ovviamente con in cuffia “Ovunque Proteggi”. Amen.
p.s. voglio la maschera di SBTRKT.