È uscito il mese scorso per Hell Yeah Recordings─qui il nostro focus─il debut lungo del varesino Marco Dassi, che ci è piaciuto. 13 tracce con facoltà di intendere e di volere, un album che attinge a tante scene musicali contemporanee e le mescola con suoni passati: un disco prematuramente maturo.
Abbiamo fatto qualche domanda a Marco.
─ di @KarolaHoffer
K – Prima domanda veloce, l’album si intitola First, Quake me ed è stato rilasciato in data 11/09. Si tratta di un album complottista?
M – Ahah, no eravamo indecisi se farlo uscire in quel giorno o la settimana dopo, alla fine abbiamo deciso per l’11 ed in effetti calzava a pennello: “Per prima cosa, scuotimi”. Niente di personale.
K – Il tuo lavoro è ricco di sfaccettature: tramonti nu-disco californiani, elettronica scura e post-dubstep inglese, richiami techno Berlinesi, samples vocali Detroit-house e chi più ne ha più ne metta. Hai fatto un po’ il giro del mondo. Com’è stato fare l’album? C’è stato tanto lavoro dietro, quali sono stati i tempi?
M – Avevamo tantissime papabili tracce, una vera abbondanza. Ci siamo detti perché non fare qualcosa, un qualcosa di ragionato, che fosse una storia da raccontare. Abbiamo trovato un filo logico che sviluppa le tracce e le tiene legate ed abbiamo sviluppato la cosa. Ci sono pezzi con hat e clap più diretti, tracce viaggione e quelle che sono un po’ l’uno e un po’ l’altro che fungono da collante. Abbiamo cercato di miscelare tante tendenze recenti e passate, una cosa un po’ strana nell’insieme. Abbiamo passato tanto tempo in studio.
K – Tanti richiami abbiamo detto, tra i tanti riconoscibili sentiamo vocoder Daftpunkiani e bassi Burialistici. Hai una parola da spendere per questi due fenomeni? Una ciascuno.
M – Considero entrambi due pionieri per il proprio genere. Un album dei Daft Punk lo riconosci anche se di musica non ne mastichi, sono dei mostri. Burial è la novità, quello che si è saputo inserire meglio in questa fase musicale.
K – Hai quindi in programma di mascherarti, di nascondere la tua identità? Credi che possa essere una delle chiavi per avere successo?
M – No assolutamente, però è una cosa che mi ha affascinato e mi affascina tutt’ora. In passato avevo progettato una maschera che mi copriva metà volto, ho pensato ad una nuova identità ma poi ho lasciato perdere. Ora sono Marco Dassi, ma in futuro…
K – … in futuro?
M – Magari ci sarà la possibilità di avere un progetto parallelo, misterioso. Mi aiuterà a creare l’atmosfera che voglio, per sedurre l’ascoltatore.
K – Hai portato a termine un lavoro importante, che diventa ancora più importante perché sei italiano. Hai 27 anni, sei un producer di talento, quanto pensi sia difficile per un giovane come te avere respiro in una realtà come quella italiana? Hai fiducia nel tuo paese?
M – Trovo che sia davvero difficile emergere in Italia, c’è una chiusura tangibile. Tutti vogliono fare cassetto. L’esterofilia dilaga, si pensa alle grandi città: Berlino, Londra, l’Olanda, pensando che i soldi si debbano investire là, che le possibilità non possano esserci da nessun altra parte. Faccio parte di un’etichetta, la Hell Yeah Recordings, completamente italiana e ne sono fiero. Stiamo facendo un gran lavoro convinti del nostro valore e sono sicuro che spaccheremo, lo stiamo già facendo.
Se dovessi puntare il dito, lo punterei sulla mentalità italiana in generale, che purtroppo è una mentalità di merda.
K – Immagino che sostentarsi soltanto con la musica sia difficile, come concili lavoro e passione (che magari in futuro diventerà il vero lavoro)?
M – Sono tecnico progettista, e dici bene, vivere soltanto di musica è difficile (per ora…). Tutti i giorni quando stacco torno diretto in studio a comporre. Compongo una caterva di roba ed ho molta costanza, mi fermo soltanto al sabato sera dove mi prendo tempo per fare casino con gli amici.
K – E se dicessi “successo”? Se tutto ha un prezzo, saresti disposto a scendere a compromessi di fronte a proposte avvenenti?
M – Non sono di certo ipocrita. Se si dovesse aprire la possibilità di fare un pezzo commerciale, perché rifiutare? Mi viene in mente Spiller con Groovejet. Potrei farlo, fare un casino di soldi e poi investire tutto in pad e tastiere! A parte gli scherzi, non ci vedo nulla di male, basta non snaturarsi e seguire progetti che ti piacciono. Non importa se una canzone ha tre note ripetute oppure se è un pezzo di Ludovico Einaudi, può comunque emozionare.
K – La vetrina più importante ora è di certo Boiler Room, quanta voglia hai di parteciparvi?
M – Eh, come dici tu Boiler Room è il presente. Sono passati quasi tutti i nomi più importanti e per un giovane è un sogno. Non sono comunque convinto che la sensazione di suonare di fronte alla telecamera sia così positiva. Di solito hai tutto il pubblico alle spalle e di fronte a te il vuoto, è una grave mancanza per uno che suona.
K – Se dovessi consigliare al lettore di DLSO una location o un momento della giornata dove ascoltare il tuo album, cosa suggeriresti?
M – Io lo ascolterei all’aperto, a contatto con la natura la quale sicuramente mi ha influenzato molto nella composizione. Ma dato che comunque è stato fatto a dimensione di “viaggio”, potrei fare tranquillamente play pure in macchina. C’è una grossa contaminazione di emozioni; tutti i rapporti che ho vissuto durante la raccolta delle tracce ho cercato poi di scaricarle sulle tastiere e sulla musica.
Ascoltatevelo dove vi porta il cuore.