Mi hanno insegnato che il paragone è sempre sconveniente, tra epoche storiche delle quali non ho fatto parte, tra partner sessuali, tra gli album di Beyoncé. Ma un confronto nell’ultima settimana ha catalizzato la mia attenzione, scaturito dall’ascolto in sequenza dei due nuovi lavori discografici rilasciati da altrettanti artisti che potremmo, con facilità e generalizzazione, includere in quel calderone ampissimo e leggermente xenofobo che è la World Music (In pratica tutta la musica, fortemente influenzata da elementi etnici specifici, che non è mainstream occidentale). Omar Souleyman con Wenu Wenu da un lato e M.I.A. con Matangi dall’altro. Il primo è evangelista dell’elettronica siriana, la seconda è rapper spirituale venuta dallo Sri Lanka. Ora, ciò che al nostro orecchio musicale, forgiato da Elvis Presley, educato dai Beatles, sedotto da Prince e schiaffeggiato da Madonna, giunge come informazione base è che entrambi gli album siano espressione di una cultura lontana, che non ci appartiene, ma di cui spesso ci adorniamo per gusto dell’esotico. Mentre M.I.A. propone da ormai una decade a questa parte suoni estirpati dalla tradizione induista per lanciarli sul mercato occidentale, Omar Souleyman accresce la sua popolarità al di fuori delle regioni medio-orientali durante gli ultimi anni, grazie al supporto di nomi come Caribou e Bjork, che gli permettono di rilasciare il suo ultimo lavoro sotto la luce di riflettori mai interessati a lui prima. Certo, si fa presto a dire che questi son prodotti autoctoni, o comunque del tutto elaborati dal genio locale al quale pretendono d’appartenere. Le affascinanti atmosfere esotiche dipinte da flauti, tamburelli e pseudo mandolini, sono in realtà frutto della sapiente collaborazione con alcuni dei produttori europei e statunitensi più in voga del momento. Alla creazione di Matangi, oltre la stessa M.I.A. hanno partecipato personalità di spicco dell’ambito urban stanunitense come Hit-Boy e Danja, oltre che al socio di vecchia data Switch; mentre Souleyman sceglie di farsi spalleggiare dal talento poliedrico di Four Tet per la stesura dell’epilettico Wenu Wenu. I risultati appaiono alle nostre orecchie genuinamente ostici, sebbene limati da una forte componente stilistica occidentale, in quanto l’appeal etnico è vivo pur sempre nell’ambito di una griglia modellata secondo canoni nostrani. Legare questa lettura ad entrambi i lavori sarebbe comunque generalizzante, in realtà le due fatiche si collocano agli antipodi del discorso. Il caso Souleyman quasi disarma una volta che si è venuti a conoscenza del nome del producer dietro Wenu Wenu, il britannico Four Tet. Le criptiche, nebbiose, ed evanescenti produzioni, alle quali siamo stati abituati dal londinese Hebden, non avrebbero concesso alcuno spiraglio al dubbio che dietro il fastoso, opulento e chiassoso album del cantante siriano potesse esserci proprio il dj della uk più profonda. L’ascolto dell’intero lp è oggettivamente difficoltoso, le trame disco-folk tipiche di un’estetica sonora medio-orientale approcciano il nostro orecchio senza cortesia alcuna, ma nel modo più brutale con una lussuosa esplosione di melodie da matrimonio armeno. Sarà un’associazione becera e qualunquista, ma ascoltando Wenu Wenu non si può evitare di scegliere idealmente gli ingredienti da aggiungere al Kebab per il quale si è in fila alle 5 e mezzo del mattino.
Tutt’altro trattamento ci viene offerto dall’ascolto di Matangi. Partendo dalle parole della stessa M.I.A., che in varie interviste ha presentato il suo quarto album come il suo lavoro più personale e spirituale, è semplice anche solo immaginare preventivamente che l’ascolto sarà un’esperienza dinamica ed affascinante come sempre la rapper britannica ce ne ha donate. Intorno alla sua musica si è infatti dato vita ad una maniera che lei ancora professa con unicità assoluta e originalità mai calante. Baraccona e multi-layered, le sue origini srilankesi sono sempre state vomitate all’interno di ogni aspetto della sua vita da noi percepito, in ambito musicale, creativo così come quello personale. Ciò che comunque rende irripetibile il suo stile è la contaminazione di elementi appartenenti alle sue radici induiste con pulsioni legate a culture occidentali tra le più svariate. Il mix accattivante di motivi esoticamente barocchi e sapori a noi familiari è la cifra stilistica che M.I.A. non abbandona nella realizzazione di Matangi. I campionamenti di The Weeknd e Blur in Exodus/Sexodus e Come Walk With Me la dicono lunga circa certe sponde musicali battute dalla rapper, e convivono in perfetta simbiosi col campionamento di un brano colonna sonora di un film bollywoodiano in Only 1 You, traccia per altro prodotta da Danja, producer nato da una costola di Timbaland.
La commistione culturale, sebbene fin l’orlo, mantiene lo stretto equilibrio che permette di posizionare Matangi in uno spazio geografico e in una tradizione musicale indefiniti, inesistenti, che nessuno aveva prima toccato. Per quanto possa voler bene a Four Tet, se Wenu Wenu lo sentissi risuonare nel locale di un kebabbaro, non vedrei l’ora che quell’ammasso di carne mi venisse servito per allontanarmi da quei canti pastorali siriani. Un esperimento interessante, inedito e significativo, ma fingere di apprezzare l’espressione melodica è tutt’altro. La sapienza artistica di M.I.A. è invece campo ancora inesplorato dalle selezioni musicali ascoltabili all’interno di fast food a base di Kebab, ma alla fine, personalmente, il kebab mi fa anche un po’ schifo.