“Fare in modo che la politica nel pop funzioni senza degenerare nella predicazione ai convertiti o all’austera seriosità”
È l’idea più importante e preziosa di post-punk, secondo il suo più grande studioso, o quantomeno il più conosciuto: Simon Reynolds.
Spesso mi chiedo se parlare di rapporti, di contatti umani, chimere e riflessioni sulla vita può essere considerato politica. Alcuni dicono di sì, adducendo che è una forma di emozioni, dimenticata dalla fredda cronaca dei nostri giorni, dall’alienazione umana di una società fredda e competitiva come la nostra. In fondo impaurita, dalle circostanze, come poche altre nella storia.
Altri dicono il contrario. Poveri loro.
Un giorno ti capita che arrivano nella stanzetta tre ragazzi di trent’anni, marchigiani, si chiamano Soviet Soviet. Li accogli. Il sound è opprimente, chiuso, alienante, nevrotico. È post punk, quello vero. Quello della tradizione, sebbene aggiornato ai giorni nostri.
Come se composto da mille tracce, tutte diverse ed insieme dirette in un’unica direzione, “Fate” si dirige verso quelle sonorità che hanno fatto grande il decennio scorso, la New York degli anni 2000, quella dei revival post punk, la riscoperta dei Television, dei Joy Division, l’oscurità che ritornava protagonista.
Tracce che sfiorano visi, incontrano stati d’animo, nel ricercare le linee dell’incomunicabilità, le mezze parole non dette, timidi sorrisi e solitudine, la tanta incomprensione.
In “Fate” il disagio del vivere è lampante, posto in modo evidente, non mediato, spontaneo. È rilegato nella volontà di fuga, la fusione con l’ambiente di “Introspective Trip”, gli impacci di un giovane innamorato di “Hidden”, quanto di più lontano dalle melense favole contemporanee, qualcosa di più simile alla fiducia, sempre più rara tra gli individui.
La ricerca del contatto umano, dell’essenza, come uscita dall’esteriore, dalle apparenze, come antidoto all’illusoria dittatura dell’immagine.
Il filo conduttore, nascosto nella chiave di “1990”, scorre lungo la nostalgia di un tempo passato, mai vissuto. La speranza nel cambiamento, la libertà nel mostrarsi umani, esprimere debolezze, condividere istanti della propria vita, la tenerezza celata nel concepire un mondo diverso, l’assoluta normalità nel farlo. Tutto svanito, tra le pieghe di un cambiamento epocale.
Ed ecco che trovi l’immagine finale, la visione perfetta di un esordio, su album, tra i più maturi e strutturati, mai sentiti nella mia carriera.
Le atmosfere come cornice del nostro esistere, le parole perse di giovani comuni, la confusione dei sentimenti, la rabbia di dover celare la spontaneità e la purezza della propria età, l’ansia di dover apparire, la disumanizzazione che vive intorno a noi, tra i cessi di un asettico club metropolitano. Ed è lì, in quel punto, che ti ritrovi a scorgere i Diaframma, tra le pieghe dei riferimenti internazionali, e sorridi commosso.
Rimarcare con decisione, freddamente, la realtà. È già un inizio, per sognare un cambiamento. Parlare di sorrisi e sentimenti, tra le atmosfere algide di un disco meraviglioso, lo è di più.
Credere nella bellezza della vita, in fondo, la salvezza. Come quella di un disco speciale. Come quella di un gruppo di predestinati del post punk italiano. E non solo.