Dopo poco più di un anno dall’uscita del loro primo disco, L’Ammazzasette, e sulla scia del successo del tour che lo ha accompagnato (oltre 100 date, comprese le apparizioni all’Arezzo Wave Love Festival, Etruria Eco Festival, Roma Incontra il Mondo), Il Muro Del Canto torna con il secondo capitolo, Ancora ridi (uscito il 29 ottobre scorso per Goodfellas). Un disco in cui l’approccio folk e cantautorale incontra suoni western e si apre a sonorità più rock anche grazie al contributo alla produzione e al missaggio di Tommaso Colliva dei Calibro 35. Un disco così bello che abbiamo deciso di farcelo raccontare dalla band, composta da Daniele Coccia (voce e testi), Alessandro Pieravanti (percussioni, batteria e voce narrante), Ludovico Lamarra (basso), Eric Caldironi (chitarra acustica e pianoforte), Giancarlo Barbati (chitarra elettrica e cori) e Alessandro Marinelli (fisarmonica). Senza dimenticare il featuring del violino di Andrea Ruggiero (Operaja Criminale).
1. Ancora ridi è un tentativo ben riuscito di filtrare ritmiche latine con l’oscuro e lo “sporco” che costituiscono, da sempre, parte del sound de Il Muro del Canto. Un brano d’amore, rabbia e intenso orgoglio proletario. Un invito alla reazione nei confronti della crisi sociale, economica e culturale contemporanea.
2. Maleficio è un brano succube di una maledizione, che ne coinvolge anche la struttura. Sonorità gitane e timbriche alla Tom Waits si intrecciano in una dimensione malata e maledetta: un’ossessione d’amore da cui sembra impossibile liberarsi.
3. Il trascinante motivo di fisarmonica contraddistingue il ritornello strumentale de Il canto degli affamati. Il brano riporta, con nera ironia, a una Roma lontana, in cui la fame era il motore di ogni azione quotidiana. Con una farsesca descrizione della povertà in stile Charlie Chaplin e una musicalità fresca e dinamica, questo è sicuramente il brano più radiofonico e diretto dell’intero album.
4. L’attenzione della band al cantautorato più colto si palesa nella riscoperta e riproposizione di un gioiellino di Stefano Rosso. E intanto er Sole se nasconne, trascritta in dialetto dal Muro del Canto, ci lascia in eredità un meraviglioso testo, significativo di una vita al tramonto, noia generazionale e inadeguatezza sociale.
5. In Peste e corna c’è una dichiarazione d’amore incondizionato, appassionato e protettivo. Eppure c’è anche un “ma”, che interrompe il sogno d’amore, lasciandolo sospeso e in balìa del sospetto, della gelosia e del dolore, la cui consapevolezza troverà un rabbioso sfogo nella travolgente ritmicità del ritornello.
6. Palazzinari, primo intervento recitato, è un viaggio tra casermoni di nuova costruzione e quartieri fantasma, dove ogni giorno si ripete la farsa di una vita “a misura d’uomo” confezionata da chi, da ormai troppi anni, controlla l’urbanizzazione delle grandi città: i palazzinari, per l’appunto.
7. Deliberatamente ispirata al tradizionale canto funebre pugliese “Lu povero ‘ntonuccio”, L’osteria dei frati è la trasposizione romana della vicenda umana di Antonuccio, celebrato, dai suoi vecchi compagni di bevute, in un accorato lamento dopo la sua morte.
8. C’è spazio anche per una parentesi ironica. Canzone allagata è, infatti, una serenata rivolta a tutto il rione e ambientata nella notte dell’eccezionale alluvione del 20 ottobre 2011, a Roma. In quelle ore, proprio nel pieno della tormenta, c’è chi scende in strada ubriaco e canta a squarciagola, mettendo in guardia l’intero quartiere sul grande inganno dell’amore.
9. Strade da dimentica’, a seguire, è una western story capace di abbattere i confini geografici. Una storia di innocenti condannati alla sedia elettrica in Arkansas, così come di colpevoli che marciscono a Regina Coeli. In questo brano c’è tutta la potenza del sestetto romano, capace, oltre che d’abbattere le distanze, anche di esplorare passioni, miserie e nobiltà dell’animo umano, al di là dei confini regionali.
10. Il secondo racconto dell’album s’intitola Il funerale. È la storia di un uomo appena passato nell’aldilà, che ha la possibilità d’affacciarsi dal feretro e parlare con parenti e amici accorsi alla funzione. L’ipocrisia dell’ultimo saluto dopo una vita d’indifferenza, messa in scena tra il salotto che ospita la salma, l’altare di una chiesa e il verde del cimitero.
11. Lacrima a metà crea un continuum con il recitato ed è una riflessione sulla vita e la morte, colta nell’istante dell’indecisione di chi è stanco della vita, ma allo stesso tempo legato indissolubilmente alla propria natura prettamente umana.
12. Arrivederci Roma, in chiusura, è un canto di migrazione, una cavalcata da selvaggio West. Un arrivederci alla città, amata e odiata. Il testo si compone di citazioni e proverbi, intrecciati insieme come radici difficili da tagliare… Anche quando si lascia per scelta o per costrizione la propria città alla ricerca della fortuna o di un sogno.
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