Non è una cosa facile da raccontare, perché non è una cosa facile da comprendere. Ci vuole tanta devozione e una pazienza immensa, ma alla fine c’arrivi.
Il concerto di Kanye West, al di là dei gusti musicali, è un’esperienza consigliata a tutti, psicolabili e schizzofrenici inclusi. Vanno bene anche gli atei e gli agnostici.
Quando arrivi nella casa dei Brooklyn Nets (a proposito, complimentoni per la stagione) realizzi finalmente cosa significa America, mentre quando gli A Tribe Called Quest aprono il mic comprendi il significato dell’hip-hop, poi tocca a Kanye e non ci capisci un cazzo. Tutto il concerto è una continua ricerca di qualcosa, scandita con maniacale precisione dalle cinque immagini, le definizioni da dizionario delle parole Fighting, Raising, Falling, Searching, Finding in preciso ordine d’apparizione. Se vi accenno al fatto che le parole sono cinque come le punte della stella massonica smettete di leggere vero? Probabilmente sì.
Procediamo con ordine e sezioniamo il concerto manco fossimo George Clooney in ER.
Innanzitutto gli ATCQ di cui v’avevamo anticipato la reunion per una splendida ultima volta, capitanata da Q-Tip e recitata magistralmente da tutti, DJ in primis, seguiti da chi ha lavorato alle applicazioni visive che meriterebbe un Oscar (non il nostro) o giù di lì. Sacrifichi volentieri l’esibizione del nuovo re dell’hip-hop mondiale Kendrick Lamar per assistere all’esibizione di un pezzo di storia, e lo sai quanto ti si vuole bene Compton Boy.
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Poi, capitolo canzoni, anche perché a tempo perso durante il concerto Kanye ha pure cantato. Oltre all’intero Yeezus (giuro che “Bounce 2” senza video non è cosi male e che Blood on the Leaves se non fai caso alle parole è davvero una gran traccia), c’è spazio anche per i suoi cavalli di battaglia, da “Runaway” che riprende il siparietto dell’official video, a “Stronger” e “Heartless” fino alla scintillante prova di “All of the lights“. Solito utilizzo dell’affezionatissimo vocoder, e la consapevolezza di far notizia e shoccare il mondo ogni volta che apre bocca (anche solo per dire stronzate come in “I am a God” e come in gran parte del disco d’altronde).
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Parlando del pubblico, t’accorgi che sono prevalentemente hipster e che forse Kanye, nonostante tutto, meriterebbe un pubblico più competente di quello presentatosi appena 5 minuti prima della sua esibizione, e che ha lasciato più di qualche buco sugli spalti durante l’opening act degli ATCQ.
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Arriviamo allo show nel senso teatrale del termine: è in pratica l’essenza dell’intero tour. Quale musica? Chi ha mai parlato di musica? Un’esibizione del genere pone Kanye sullo stesso piano di Lady Gaga o chicchessia. Pur conservando quel qualcosa che ancora riesce a separarlo dall’ essere volgarmente e banalmente “commerciale”. T’ammalia pur essendo esagerato (e quindi ridicolo) in alcuni suoi tratti. C’aspettavamo Jesus e Jesus è stato, la montagna non s’è mai mossa dal palco, anzi no, che dico, s’è aperta in due per farne uscire il salvatore. C’erano le ancelle e Yeezy ha tenuto su una maschera (tre diverse in verità) per quasi tutto lo show.
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Tutta la tappa del tour è un crescendo di megalomania ed effetti speciali, tanto che ad un certo punto ti chiedi se tu non abbia sbagliato strada ed invece di Brooklyn sia sceso a Broadway. Tuttavia, e lo snodo è fondamentale, il suo professionismo sfrenato, quell’aurea guascona che circonda il suo talento, riescono a farti dimenticare a quale razza di follia tu stia assistendo, e la rendono credibile portandoti finalmente alla comprensione del dilemma, che recita: Kanye West è un Re, oppure Black Jesus (che Earl Monroe mi fulmini, adesso).