Il Passaporto di oggi è come una di quelle edizioni speciali del tuo giornale preferito: arriva impacchettato e puntuale ogni mese, scartocciare il cellophane ti dà sempre una gioia enorme, ma la volta in cui ti recapitano il numero con la copertina cangiante o l’allegato dedicato al tuo film preferito, è festa due volte. L’illustratore che intervistiamo qui si chiama Guido Scarabottolo, è uno splendido cinquantenne e ha segnato la storia dell’illustrazione italiana. L’unico aggetivo che mi viene da associare ai suoi disegni è: innocenti. E nel suo viso ritrovo tantissimo quello di mio padre.
Come vedevi Milano da piccolo e come la vedi ora?
Mi è capitato di fare una mostra esattamente nel luogo dove mio padre ha lavorato per 40 anni. Chissà quante volte è entrato nello stesso piccolo capannone della Breda che il mese scorso ospitava i miei disegni. La Breda era una acciaieria, non c’è più. La Pirelli non c’è più. La Falk non c’è più. Le fabbriche non ci sono più. Al loro posto ci sono quartieri residenziali, uffici, ipermercati, cineplex, qualche giardino e persino musei. Per me i cambiamenti di Milano sono questi.
(Mio padre disegnava meglio di me.)
Quali sono i cambiamenti più forti avvenuti in questi anni nel mondo dell’illustrazione?
L’arrivo del digitale. Per ora non si capisce ancora bene cosa sta cambiando. I programmi di disegno simulano procedimenti fisici legati agli strumenti e ai supporti tradizionali cui siamo ancora abituati. Ma il computer è una cosa diversa da un pennello. Credo, ad esempio, che l’immagine statica perderà moltissimo terreno. Peraltro sono già cambiati i processi di produzione e di fruizione, il mercato è diventato globale.
Il tuo lavoro: talento naturale o anni di sacrifici e studi?
I talenti veri sono pochissimi, forse quelli che emergono a livello mondiale ogni anno si possono contare sulle dita di una mano. Gli altri, me compreso, devono “studiare”, ma non sono mai riuscito a considerarlo un sacrificio.
Raccontaci come è nato il sodalizio con la casa editrice Guanda.
Pare che io sia stato chiamato per merito di uno dei “libri a naso” (disegni d’archivio cuciti da un racconto), piccole autoproduzioni che Giovanna Zoboli e io pubblicavamo a scopo promozionale. Evidentemente le prime prove, poi, erano soddisfacenti…
Ci mandi una fotografia della scrivania su cui stai lavorando in questo momento?
Nel 2005 hai scritto un piccolo saggio sotto forma di lettera aperta sull’Aou Journal. Il titolo era Elogio della Pigrizia e mi ha molto colpito il fatto che io senta la stessa necessità, nonostante abbia una manciata di anni meno di te, di abbandonarmi alla pigrizia creativa per evadere dallo stress lavorativo. Secondo te i ragazzi di oggi sono più o meno logori di quelli della tua epoca?
La storia della pigrizia era un artificio retorico per parlare del fatto che un illustratore non deve pensare solo a disegnare. Da ragazzo lavorare mi costava molta più fatica mentale, in un certo senso mi logorava molto più di ora. A parità di età direi che siamo lì con il logorio. Ai miei tempi, anche se il mercato era più ristretto, c’era certamente meno concorrenza, e questo è un vantaggio, così come un vantaggio era la nostra attitudine a lavorare in gruppo.
L’illustratore disegna e il lettore completa con la sua interpretazione?
Sì, certo. Mi piace molto risolvere un lavoro con poche pennellate (di solito riesco a farlo con i romanzi giapponesi) e questo lascia molto spazio all’interpretazione. Ogni tanto penso che mi piacerebbe arrivare al disegno invisibile.
Qual è la prima cosa che guardi nelle illustrazioni degli altri?
L’intelligenza, la naturalezza e la semplicità.
Nostalgie in corso.
Lasciamo perdere.
Se ti dico Dance Like Shaquille O’Neal, cosa mi disegni?