È uscito lo scorso 7 Dicembre, Festivalbug, nuovo EP dei Bachi Da Pietra. Di seguito, lo trovate in streaming con annesso track by track.
PREMESSA CONCLUSIVA
Un baco è un verme. Un verme è un tubo. Un tubo è un tunnel. Brulicano sotto le pietre e una fitta rete le collega insieme. Puoi entrare in un punto qualsiasi, seguire le tracce, uscirne altrove. Puoi anche non farlo, fregartene e ascoltarti la canzone. Fine.
MUSICA DI RICERCA
Sembra un insettaccio, ma in copertina c’è un paguro. Abbiamo proprio preso un granchio ed è così un po’ tutto il disco, il nostro disco dell’estate da regalare a Natale. Per quanto sia balneare, anche qui la materia è ostrica. Lasciamo fare a Wikipedia: FESTIVALBUG. Voce non pervenuta. Ancora una volta il mistero si fa fritto. Disambigua la voce FESTIVAL.
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“Un festival è un evento festivo, […] Ha come tema la cultura o lo spettacolo […ok, tipo Sanremo – Ndr]. Si può svolgere in una città sola o in una zona più ampia”.[/quote]
Ne esisteva uno d’estate dove i cantanti suonavano (per finta) i loro tormentoni di plastica: era il Festivalbar. Me lo ricordo. Grande intrattenimento.
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“Dal 1964 al 2007”.[/quote]
Addirittura. Grazie Wiki. Tutto suona già molto più pop. Relax.
Già che ci sei, disambigua anche la voce BUG.
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“Nell’informatica il termine bug o baco identifica un errore nella scrittura di un software […]. Un bug di un programma è un errore o guasto che porta al malfunzionamento di esso; per esempio producendo un risultato inatteso o errato. […] Un programma che contiene un gran numero di bug che interferiscono con la sua funzionalità è detto bacato”.[/quote]
Nota a margine. L’espressione testa bacata esiste nell’italiano corrente molto prima dell’informatica. Ma senti questa.
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“L’uso del termine bug, che in inglese indica genericamente un piccolo insetto, è legato ad un curioso aneddoto risalente ai tempi pionieristici dell’informatica: il 9 settembre 1947 il tenente Grace Hopper ed il suo gruppo stavano cercando la causa del malfunzionamento di un computer Mark II quando, con stupore, si accorsero che una falena […o, per gli amici, Farfallazza – N.d.r.] si era incastrata tra i circuiti. Dopo aver rimosso l’insetto (alle ore 15.45), il tenente incollò la falena rimossa sul registro del computer e annotò: «1545. Relay #70 Panel F (moth) in relay. First actual case of bug being found». Questo registro è conservato presso lo Smithsonian National Museum of American History.”[/quote]
Verificare. Intanto lo spettacolo inizia e subito altra svista: mi dici Balestra e invece spunta Pavese. Affinità? Può essere. Terrore all’idea di una dissertazione sul tema. “Una montagna di neve tienila all’ombra” è di un tale che si chiama come la canzone, e con questo chiudiamola lì.
INGREDIENTI
In TITO BALESTRA c’è una chitarra acustica che si fa drum machine e insiste finché arriva Ataualpa giù dalla montagna in sembianza di beat; c’è un piano che si comporta da chiodo, suonato da Bruno, e un Ragno di nome Giulio che tesse una trama africana col basso.
A sentir bene c’è un sottofondo di field-recording con cinguettanti uccelletti del lago accanto allo studio. (Lago? Un quasi-mare). Riccardo Gamondi ha avuto libertà totale di prendere il tutto e shakerare a suo gusto. Così come in MADALENA, dove gli ingredienti sono rigorosamente quelli della ricetta eterna del blues. Certi piatti non li devi inventare. Di ritorno dai mari lontani (se non era Haiti era almeno oltreconfine), siamo ora nelle Langhe, in Piemonte. E “infatti” spunta il mare. Qualche milione di anni in ritardo è solo un dettaglio. Questo disco è tutto in errore. Urge una botta di precisione. Così in BARATTO RESOCONTO ESATTO c’è uno speaker notturno da una radio metropolitana accesa in penombra in cucina, mentre Mattia Coletti prepara una tartare di Tonno agli agrumi; un tizio legge diligentemente un bollettino di scambi e messaggi. Nomi, cognomi, date… Preciso. Meticoloso. Puntuale. È il suo sporco lavoro. Lo sa fare.
TRAMA
Lei, lui, l’altro. Al bar. Al mare. Dove? Un mistero. Comincia così. Il personaggio narrante (l’altro) avrebbe fatto meglio a star zitto o a parlare di calcio. Ma di calcio non ne sa niente (e nel suo rimuginìo lo tradisce in modo evidente). In caso di ignoranza su un dato argomento è uso socialmente apprezzato spararla grossa, che quindi va bene. Vince chi grida più forte, e tutto il resto è sfiga. Il tizio narrante sceglie la sfiga, si morde la lingua e rimpiange di non averlo fatto anche prima. Passo falso, errore, prendere nota. Si toglie dal sole e se ne torna nelle Langhe, nell’ombra che gli compete, inseguito da uno sciame di domande. Sulla strada di casa, nei pressi di Canelli, ha una visione: Madalena. Un’altra lei, l’ancestrale, la sempre-esistita, la dispensatrice di vita, morte e altre delizie. La femmina agreste e fatale, reggente assoluta di un mondo perduto per sempre: il suo. La creatura mansueta e semidivina che suo nonno avrebbe amato per tutta la vita, e che il mare l’ha visto (forse) una volta in cartolina. Poi la visione si spegne, torna nel mondo presente e accende la radio. Un tizio legge un elenco.
EXTRA
Il testo non lo rivela, ma esiste tutt’oggi una Madalena viva e vera, perfetto esemplare di una specie preistorica che si riteneva estinta. Se ne ignora il nome (Madalena o Madlinén era detta in famiglia una mia trisavola); così come descritta, sulla ventina, è apparsa una volta in veste di cameriera della locanda di una remota località di campagna del basso Piemonte.
Lei taglia zitta il bollito con un lieve sorriso pudìco, maneggiando elegante un enorme machete. L’universo collassa nella sua scollatura. Governa le sorti dell’uomo. Regina assoluta di una brulicante festa di insetti sotto una pietra. Rimettici l’ombra. Non saprà mai.