Immagini di Fabio Di Cecca
Il momento in cui ho visto i Vampire Weekend stringere il Grammy, per me, deve essere stato come per Proust assaggiare quel leggendario biscottino intinto nel tè che gli procurò un cortocircuito mentale così intenso da fargli scrivere la Recherche. Subito mi parte in testa la carrellata di foto dello stesso premio tra le mani di Phoenix e Arcade Fire, per finire su quella in cui Obama sorride con i The National. Chiunque abbia adesso ventiequalcosa anni si sarà subito la storiella su come ogni decennio del novecento era una figata rispetto al presente, ma la questione sul cambiamento che stiamo vivendo in tempo reale è affrontata troppo poco rispetto alla costante mitizzazione a posteriori del passato. Come è potuto accadere che band ascoltate in cuffia da una manciata di persone su suolo nazionale fino a dieci anni fa siano finite in filodiffusione negli store di multinazionali o ad animare pubblicità di auto, oltretutto senza essere impastate dalla collaudatissima macchina del successo occidentale? Cerco di andare più indietro possibile per isolare i primi segni del passaggio di questa sottocultura dalla nicchia al mainstream, passaggio che ci ha regalato situazioni senza precedenti, durante una crisi epocale del modo in cui le persone vivono l’intrattenimento.
Anni 90. Nella New York dell’apice della deregolamentazione di Wall Street non succedeva un granché di controculturale, ma come scrive Suroosh Alvi in The Vice Guide To Sex, Drugs and Rock’n’Roll “then 9/11 happened, and NY came alive”. Brooklyn si trasforma nel quartier generale degli hipster e cominciano a spuntare come funghi i musicisti di nuova generazione, che fanno alzare anche gli affitti grazie al campo magnetico di figaggine che sviluppano nel quartiere. Questi ultimi e l’upper class che orbita attorno a loro, in asse con gli artisti del circuito della Arts&Craft di Toronto (non dimenticherò mai il dj degli Azari&III quasi commosso che mi dice “they made Canada cool again”; Per approfondire leggere This Book Is Broken di Stuart Berman), e un mucchietto sparso di formazioni provenienti da ex aree industriali, formano il primo tessuto narrativo originale su cui specula una fanzine di musica alternative, Pitchfork. La fanzine, con l’avvento dell’era dei new media, diventa un colosso multipiattaforma, insieme alla punkzine VICE di Montreal, poi esportata come McDonalds in una quarantina di paesi.
Il punto della questione con gli Stati Uniti è che ogni mercato indipendente ha un ordine di pubblico abbastanza grande da poter supportare la produzione dell’industria dell’entertainment. In aggiunta la produzione, distribuzione e fruizione dei contenuti ha costi così bassi, grazie all’innovazione tecnologica, tali da permettere anche alle infrastrutture più scarne di iniettare contenuto online. Questo mette sullo stesso piano gli ultimi arrivati e le corporation, le quali si trovano in difficoltà a causa delle strutture più ingombranti e difficilmente adattabili al cambiamento drastico.
Questa situazione ha posto ogni realtà underground, anche più estrema, davanti agli occhi del pubblico di massa, disponibile su ogni device, on demand, 24/7, nonostante l’accesso a una rete parzialmente libera. Franzen percepisce tutto questo come un’apocalisse per i produttori di contenuti.
Altri come l’inizio di un mastodontico boom creativo.
In ogni caso, le proporzioni sono grosse.
Il nostro Paese, che fino a poco tempo fa ha vissuto intrappolato nel ventesimo secolo, per grazia della rete ha contenuto il delay con il resto della Terra, fino a portarlo ad una leggera differita, forse trascurabile, per quelli che rigettano la lingua di Orwell. Ma quello che viene perso nella traduzione, il fraintendimento e l’impossibilità di adattare quel tipo di produzioni al contesto, crea attrito e una valanga di mostri sociali senza una funzione precisa, come un gruppo di eunuchi che non costituisce un coro evangelico. Migliaia di identità tra i 20 e i 30 anni attingono ancora a parte di quell’universo d’oltreoceano in modo illegale e frammentario, e attendono Netflix o la HBO come una dodicenne la comparsa delle tette.
La voglia di questa emancipazione è un coito interrotto per l’impossibilità di riprodurre, rielaborare o comunicare adeguatamente, nel proprio giardino, quel modo di raccontare la contemporaneità così decontestualizzato rispetto ai nostri standard.
Chi paga è la moltitudine di focolai di creatività sparsi sullo stivale, disconnessi da pubblico e fonti di approvvigionamento come inserzionisti. L’assenza di un network è dove fa eco il vuoto.
Questa ouverture è l’indice di quello che seguirà, un manuale d’istruzioni di un’era dove la nuova generazione rimprovera quella vecchia di stare sprecando la propria vita davanti alla televisione e la tecnologia è più nella nostra mente di noi stessi.