Nuovo mese (ehm, nuovi mesi), nuovo mega-pezzone-recap su quello che è successo di notevole (e succederà a breve) nel magico mondo dei chitarroni.
I Lantern sono un gruppo italiano, di Rimini per la precisione, e Diavoleria è il loro primo disco lungo dopo l’EP di debutto. Per me rimangono una delle leve più promettenti dell’HC nostrano, nonostante in questo disco non percepiamo ancora una maturità completa del quintetto (eccheccazzo, è il loro primo disco). Però hanno una gran tecnica, sono decisamente ispirati (bene: Raein, FBYC, Massimo Volume) e in L’invincibile S50 raggiungono probabilmente il punto più alto del disco: se non fosse per la voce in pieno stile Raien, l’intro sembrerebbe materiale prodotto direttamente da Scott Kelly e soci. Anche il finale in crescendo pesca a piene mani dalla violenza di un pezzo come Locust Star. Insomma, c’è questo elemento tribale che i Lantern riescono a padroneggiare molto bene (lo possiamo notare anche nel finale dell’ultima traccia “Profeta”) e che spero riusciranno a fondere sempre meglio con le loro radici punk.
Era da un po’ che spettavo il nuovo disco dei (degli? GOD DAMMIT) You Blew It! e dopo il loro il loro debutto Grow Up Dude i nostri amici di Orlando-Florida cacano un disco notevole. La produzione è curata da Evan-allmighty-Weiss degli Into It. Over It. e si sente, sia nei suoni, sia nelle scelte di composizione, soprattutto delle chitarre (quei riffettini twinkle che non esagerano ma si fanno notare eccome). I pezzi sono un misto di ritmiche complesse, intrecci di corde, melodie orecchiabili che, purtroppo, si somigliano un po’ tutte. È un po’ quello il tallone da killer delle produzioni di Weiss, ma è anche un po’ la cosa bella non so se riuscite a seguirmi (probabilmente no). C’è da dire che in una cosa invece spiccano rispetto ai colleghi e in questo mi ricordano le peculiarità che invece troviamo spesso nelle band italiche, ovvero i testi. Tipo in Home Address, il pezzo migliore del disco, troviamo frasi come «I’m not the sum of my own parts, just a rough combination of the people I’ve met so far» e in generale c’è una certa ricerca di parole e pensieri che non sono proprio scontati, ecco. Poi nell’inno finale Better to Best si legge «maybe things aren’t quite as bad as I let myself believe» che mi ha ricordato «e dopotutto quando fuori non piove non è affatto male» di Sasso dei FBYC. Ogni tanto una gioia.
I La Dispute sono un dei miei gruppi preferiti degli ultimi anni e a pensarci bene è strano perché, quando li ho ascoltati per la prima volta, ho moderatamente detestato la voce del cantante. La detesterete anche voi, ma come me imparerete ad apprezzarla e alla fine a non riuscirete a fare a meno di questo ibrido urlato-parlato. Il 21 Marzo (segnatevi la data) esce il loro terzo disco e a sentire i primi due singoli usciti, sarà UNA BOMBA. Il primo Stay Happy There è un classico pezzo à la La Dispute: ritmo incalzante, armonie calde e mai scontate che letteralmente cavalcano assieme alla batteria. Nel finale c’è un cambio di ritmo che boh, ti fa proprio esplodere le papille gustative che risiedono appena dietro al timpano auricolare. For Mayor In Splitsville è invece un pezzo strano, non si riesce ad inquadrare al primo ascolto e forse neppure al secondo. Per me è un pezzone, probabilmente meno d’impatto rispetto al precedente, ma decisamente più destabilizzante. Il ritornello che parte dopo le strofe (1:21 nel video) mi provoca sempre uno scompenso mentale. File under fotta.
Torniamo in Italia per parlare dei Kairo. Non so quasi nulla dei Kairo, tranne il fatto che mi hanno sorpreso. Sì perché i primi 3 pezzi sono quelli che ti aspetteresti da un album con quel tipo di grafica in copertina. Da metà album in poi, però, i Kairo prendono una piega meno emo, più rock, ma forse semplicemente più eterogenea, dove, oltre ad una certa tecnica, risalta anche la buona voce del cantante che effettivamente “canta” e non “sbraita” e basta. Un debutto che vi consiglio di non lasciarvi scappare. Qui potete ascoltarne lo stream esclusivo.
I Modern Baseball, come gl(i) You Blew It!, sono un altro gruppo di cui attendevo ansiosamente il secondo capitolo. I secondi sono sotto Topshelf, i primi sono stati arruolati per questo disco da Run For Cover Records che, come sappiamo, è quasi sempre sinonimo di qualità. Anche stavolta l’etichetta non si smentisce perché You’re Gonna Miss It All è un disco pieno zeppo di personalità, prodotto e confezionato con cura. La fetta maggiore di personalità è fornita sicuramente dalla voce (molto) nasale di Brendan Lukens che, più che nell’emo, trova il suo naturale collocamento nel folk cantautorale. Una voce che o si ama o si odia, credo. I testi sono però abbastanza adolescenziali, d’altronde i quattro sfiorano appena i vent’anni ciascuno quindi ci sta; insomma non aspettatevi il Faber. Per me questo insieme di folk scanzonato, a tratti quasi country, e power-emo-pop funziona alla grande, soprattutto in questi giorni in cui spunta il sole.
Tornano gli HAVAH, il progetto lento e rumoroso di Michele Camorani aka batterista di Raein e La Quiete, e io sono felice. Sembra una contraddizione dato che i dischi degli HAVAH non possiamo proprio dire che siano pieni di gioia e stare bene. Però io, a risentire il rumore acido delle chitarre, la voce grave e cantilenata di Michele, i bassi che fanno vibrare lo stomaco, mi sento più leggero.
Ora vi parlo dello split Joie De Vivre/Prawn quasi esclusivamente per i pezzi dei Prawn, non perché quelli dei Joie De Vivre facciano schifo, ma non reggono il confronto con i gamberoni. In Why You Always Leave a Note il gruppo si presenta sempre più maturo, al punto che sono riusciti ad appropriarsi di un particolare suono delle chitarre; appena le senti capisci che sono loro. I suoni sono curatissimi, così come le pause, le ripartenze, tutto insomma. Un piccolo gioiello e sicuramente uno dei gruppi più originali e maturi nel genere.
I Seahaven sono una band relativamente giovane, ma se ascoltate quello che hanno tirato fuori fino ad ora (un album e un paio di EP) e il singolo che anticipa il nuovo disco Reverie Lagoon: Music For Escapism Only, esclamerete un semplice “WAT”. Sì perché da un post-punk/hc bello tirato e novantiano, i quattro pare abbiano deciso di svoltare totalmente verso un indie rock immerso nella sabbia delle spiagge californiane (diciamo pure Beach House). Il cambiamento è notevole e non privo di rischi (né critiche), resta solo di conoscere come suonerà tutto l’album il 25 del prossimo mese.
Metti su la prima canzone e dici “toh, Josh Homme” poi capisci che non sono i QOTSA, bensì i Diamond Youth al loro terzo EP. Se come il sottoscritto sei uno schiavo dei novanta, non puoi non saltellare ascoltando il sosia vocale di Homme insieme a chitarroni grassi e distorti, anche se dopo qualche ascolto non opossiamo proprio dire che il disco sia un miracolo di originalità. Ho come l’impressione che soffrano il breve formato e che dopo 3 anni di EP sarebbe pure il caso si cimentassero sulla lunga distanza.
Ecco, a proposito di originalità quando si tratta di citazionismo novantiano, vi presento i Nai Harvest che escono anche loro a marzo con un nuovo EP intitolato Hold Open My Head, di cui possiamo ascoltare due tracce nel loro bandcamp. Dopo aver scoperto che si tratta di un duo chitarra/batteria (un po’ come i Dads), non possiamo riconoscerne quantomeno la bravura tecnica, ma ci verrà molto facile apprezzarne il mix di melodie rock catchy e stop & go quasi math che riescono a tenere alto il livello di attenzione per tutta la durata dei pezzi.
Questo disco degli Human Hands me l’hanno citato dal nulla i miei amichetti del forum e successivamente pure i miei amichetti del twitter e questo dovrebbe già farvi capire che siamo difronte un disco degno della vostra attenzione. È un disco che va contro a tutto quello che si trova nelle recenti uscite di musica pesa, quindi produzioni, più che grezze, calibrate per farle sembrare tali. Qui invece si sente ogni rumore, ogni imperfezione, ogni stralcio di disperazione. Il basso di Remain è la cosa più novanta uscita da qualche anno a questa parte e non intendo “che sembra uscita dai novanta”: questa roba è chiaramente arrivata a noi tramite un buco nello spazio-tempo o che cazzo ne so io. Gli Slint, più incazzati.
Gli Sport sono un’anomalia francese tra tutte queste band USA e UK e sono un gruppo il cui suono si avvicina a quello dei Crash of Rhinos (che si sono sciolti qualche giorno fa. Ecco vedi, ora piango mentre mi taglio le vene), più che altro per quanto riguarda i coroni da pub e per la buona tecnica (che non raggiunge, ovviamente, quella dei rinoceronti). Bon Voyage è disco che non sorprende, ma che a conti fatti è ben costruito ed estremamente piacevole, dall’inizio alla fine.
Concludiamo con una delle band che più mi ha colpito negli ultimi anni, ovvero i Pile (da leggere come il pile che ti metti addosso quando c’hai freddo). Esce l’11 marzo il loro nuovo EP di cui possiamo sentire una sola canzone, che però ci manda già in fibrillazione: solito cantato grezzo e introspettivo, solite melodie scanzonatissime, solita attitudine hardcore applicata a metriche blues. Una cazzo di bomba atomica.