Daniele Mana a.k.a. Vaghe Stelle – moniker mutuato dal film “Vaghe Stelle dell’Orsa” di Luchino Visconti, che a sua volta cita Giacomo Leopardi – è senza dubbio uno dei produttori di musica elettronica più interessanti dello stivale, non a caso selezionato dalla prestigiosa Red Bull Music Academy come unico studente italiano per l’edizione 2005 di Seattle. Ho avuto l’occasione di ascoltare questo disco in anteprima – o perlomeno alcune parti, non ricordo esattamente – in una situazione/location tutta particolare: dentro il Planetario di Ravenna, con tutti i pianeti e le galassie in movimento, come spettacolo dell’ottima rassegna “Paradoxes” curata da Lorenzo Senni (con cui Daniele fa parte del collettivo One Circle, assieme anche ad A:RA) e organizzata dall’associazione culturale Ortographe.
L’ascolto casalingo mi ha determinato ben altre suggestioni – sebbene le atmosfere spaziali siano tutt’altro che assenti, e la label londinese che lo pubblica si chiama pure Astro:Dynamics – dato che “Sweet Sixteen”, secondo il concept dell’autore, è piuttosto una specie di dialogo tutto intimista riguardo varie fasi della vita (o perlomeno così mi pare di aver letto da qualche parte, ma non riesco a ritrovare la fonte, e ho sinceramente paura di aver appena scritto una fregnaccia), e non è un caso che la traccia che chiude l’album si chiami appunto “Thanks for the Conversation”. Nella pratica il tutto si configura come una specie di raccolta di brani molto coerenti, seppur diversi tra loro e appartenenti a vari stili differenti, ognuno sviscerato e reinterpretato con notevole personalità. La title-track, ad esempio, ha uno scheletro hip hop veramente potente, ovviamente i suoni sono quelli della sua tavolozza sonora (per l’album ha utilizzato parecchio due sintetizzatori analogici come il Roland Juno 106 e il Korg Poly-800), ma su sta roba un qualsiasi rapper americano di livello medio-alto inciderebbe un capolavoro: ha un groove potentissimo con uno swing impercettibile e assassino.
Il resto è più orientato sulla ambient o sulla techno, o su altre cose che in fondo oggi come oggi ha poco senso definire e distinguere, dato che l’importante è lo stile, e il viaggio sonoro. E qui lo stile c’è e il viaggio sonoro pure, lo si nota già da piccoli dettagli tipo il gioco di hi-hat su “Libitium”. Io ho messo mano al portafogli e me lo sono comprato in vinile, voi ascoltatelo e se siete gente che ama la musica – a.k.a. che la compra – dovreste fare altrettanto. Tanto questi dischi tempo dieci anni e come minimo raddoppiano di valore.