Ieri sera si è tenuto a Milano uno dei concerti più attesi di inizio anno. Loro, quelli che ormai conoscono tutti, dal pubblico radiofonico a quello della presunta nicchia che li ha scoperti quando il video di Latch è stato buttato nell’etere ad Ottobre del 2012. La platea dei Disclosure era perfettamente in linea col successo che il duo inglese ha raggiunto in questi anni: un successo trasversale, che trascende le definizioni di genere e di spettatore, che conosce le parole a memoria come fosse il concerto dei Subsonica e soprattutto che vive l’evento come un accadimento pop.
Che cos’è ora un accadimento pop? La terminologia di musica popolare nasce negli anni venti e viene usata in senso molto ampio per riferirsi all’intero corpus della musica occidentale di massa, intesa come “di gradimento generale, diffuso, che fa presa sulle masse” (cfr. Wikipedia). Se fossimo negli anni ’80 la terminologia si riferirebbe ai Queen, se fossimo nei ’90 alle Spice Girls o agli Oasis, nei ’00 a Pharrell Williams. In questo principio di 2014 l’additamento tocca ai Disclosure. Questa premessa appare di fondamentale importanza nel giorno che segue un concerto il cui relativo commento medio postato da chi non c’era, ma era su Facebook a cercare di carpire quanto più possibile dall’evento, è stato (cito testualmente) “3/4 della gente è lì perchè fà figo mica per ballare e divertirsi?”, “Il cosiddetto pubblico dimmmerda!”, “tanti cellulari poca danza selvaggia”.
Per non parlare delle discussioni intorno all’argomento cellulari alzati, di cui ci eravamo occupati anche noi in tempi ben pregressi, come se negare l’evoluzione dell’approccio popolare alla forma concerto non fosse altro che un modo nostalgico di vivere la musica e le abitudini che porta con sè. Tanto per riprendere gli artisti già citati, se nel 1986 fossero esistiti i cellulari voi non avreste ripreso il concerto di Freddy Mercury a Wembley per conservarne una copia e condividerla con i vostri amici? O se ci fosse stato Facebook dieci anni dopo non vi sareste scattati una selfie mentre gli Oasis suonavano Wonderwall a Knebworth e postata su Instagram? Lo avreste fatto eccome, con la differenza che vent’anni fa, in mancanza di altri mezzi, ci si affidava allo story telling orale da trasmettere ai propri nipoti, oggi c’è la possibilità di trasferire informazioni in tempo reale ai nostri stessi contemporanei.
Il pubblico ha ballato poco? Evidentemente non eravate lì a respirare le ascelle degli astanti che si sono scatenati anche troppo. La gente era immobile preoccupata di non far venire mosse le riprese? Purtroppo quando le braccia si agitavano di entusiasmo non potevano reggere contemporaneamente una fotocamera. Quando voi li avete ascoltati in un club arroccato della Finlandia l’atmosfera era calda e la gente si abbracciava? Posso assicurarvi che ieri nessuno stava piangendo di dolore.
Il punto, in questo discorso, è ben più ampio: che occorra un limite, del tutto personale e legato al buon senso, alla socializzazione eccessiva degli eventi per evitare di perdersi le vibrazioni più sottili di un mondo chiamato musica, è fuori ogni discussione. Sparare sentenze sulla base di quello che “vivete” attraverso i Social Networks (degli altri), senza essere in loco, senza avere cacciato fuori neanche una goccia del sudore che millantate dovrebbe scorrere a fiumi su certe fronti, senza avere una visione completa di ciò che è stato, ma solo attraverso una proiezione parziale e incompleta di quello che avete capito da Facebook, vuol dire guardare nello schermo di quei cellulari alzati e non lo spettacolo che c’è dietro.
La scorsa settimana ho avuto l’onore di assistere ad una performance sublime per occhi e orecchie, il concerto live di Nadia Ratsimandresy, una delle ultime suonatrici di Onde Martenot al mondo. La sala era calda e poteva contenere poche persone. Posso assicurarvi che nessuno stava registrando video su Instagram, che non c’erano flash ad accecare la bellissima Nadia e che nessuna selfie è stata postata davanti ai miei occhi. Ma l’uditore medio avrà avuto l’età di 50 anni. Quello che mi infastidisce terribilmente è negare che la musica sia figlia del proprio tempo e voi non potete farci niente. I Disclosure, che lo accettiate o meno, hanno un pubblico di ventenni. E i ventenni hanno degli smartphone, che usano, perché non hanno idea di come si viva senza.
La verità, alla fine, è che non vediamo le cose per come sono, ma per come siamo. Pensateci la prossima volta sentite l’urgenza di esprimere un’opinione.
Ps. il concerto è stato molto divertente, ciao.