Mettiamo caso Justin Timberlake pubblicasse un album composto da slowjam, da sole lagne strizzate dai suoi falsetti, da sole canzoni che ci fanno venir voglia di cercare uno srilankese con rose per regalarne una a noi stessi, bene io credo genererebbe in noi, esponenti della generazione heartless, un disagio interiore supportato da atteggiamenti di scetticismo e snobismo verso quel prodotto discografico frettolosamente giudicato melense e adolescenziale, per noi che abbiam troppi post da reblogare per perderci in sentimentalismi da supermercato.
Manteniamo distanze di sicurezza ben definite dagli edulcoranti da radio millantando cinismo, ma come reagiamo all’ascolto di un album come Tremors del giovane produttore e cantante SOHN? L’esperienza è una violenta immersione nei meandri della nostra sensibilità emotiva, è apnea, impotenza. L’uragano sintetico aizzato da drum machine e tastiere investe con una violenza che solleva le sensazioni più remote slegandole dai nodi coi quali siamo soliti costringerle. Nonostante l’asettica e metallica natura dei suoni, spesso accompagnati da campionamenti vocali che impreziosiscono i componimenti, la tessitura mostra al tatto lo spessore e il calore delle fibre più vive e pregiate, in un complicato ricamo che prende vita in modo pulsante e dinamico, come imitante il moto di onde in corsa l’una dietro l’altra. Christopher Taylor è chiaramente un musicista dalla spiccata spontaneità, un animo istintivo che utilizza gli strumenti della meticolosità più scientifica per esplodere a pieno senza inibizione.
Il più elementare componente, all’interno dell’opera Tremors, è con minuzia matematica incastonato in una feroce composizione vertiginosa, che a grandi altezze appare densa e impenetrabile, indomabile, ma nel particolare si rivela addomesticata, educata con passione e dedizione, con il sentimento di chi scrive di se stesso, non con approccio autobiografico, ma con autoanalisi. Vivono le percussioni sintetiche con l’autenticità di quei suoni che sembrano nati per completare immagini in time-lapse di grandi fenomeni naturali, la violenta, inesorabile eppur garbata rottura di un ghiacciaio, ad esempio. Di strumentali religiosi e metafisici stiamo parlando, ma la straordinarietà di quest’album è il matrimonio che questi mettono in atto coi vocal di Taylor. Con inaspettato tradizionalismo, il producer-cantante britannico stende la propria voce, conservando nobile autocontrollo, sulle tumultuose musiche, non permettendo che la colata lavica la ingoi, ma preservando la chiarezza formale di cui è carica. Il cantato si dispone educatamente secondo schemi che non negano le regole della musica pop, concedendo alla totalità della composizione la sensualità dell’ibrido perfettamente in bilico tra la sperimentazione e la tradizione. Le buone maniere imposte dalla voce di SOHN seducono il caos artificiale degli strumentali.
Nel colloquio tra le due parti, gli argomenti si fanno sempre più penetranti e alla fine l’una incanta e rapisce l’altra in una rapida unione che trascina ogni brano in un climax vorticoso all’interno del quale la nostra emotività è torturata. Come precipitare ogni volta dalle altezze d’impetuose cascate, l’ascolto dell’opera è un profondo tuffo in una sensibilità che non mostriamo, che non lasciamo respirare, che nascondiamo; ci lascia vulnerabili, feribili. È un’esperienza che prende a schiaffi, ci percuote. Distrarsi è inutile, la forza compositiva trascina chi ascolta nell’occhio del ciclone, spietatamente.
Con la veemenza che un album slowtempo di Justin Temberlake non potrebbe mai avere, Tremors è la prova che forse possiamo ancora salvarci dalla prospettiva d’essere ricordati realmente come generazione heartless.