L’accesso illimitato ai contenuti, e la natura interattiva del rapporto di questi con l’utenza, ha portato la fiction dell’ultima ora a speculare sulle conseguenze dirette di una fusione completa tra la realtà artefatta dei servizi digitali e il nostro spazio vitale.
L’uscita di Her ha fatto riflettere un pubblico vastissimo sulle trappole evolutive che il progresso tecnologico può generare per noi esseri umani. Della piega strana che può prendere l’immediato futuro però ce ne ha già parlato, e molto meglio, Charlie Brooker con Black Mirror, antologia distopica in stile orwelliano ancora in produzione. L’imminente scenario distopico dipinto nella serie britannica ha molta somiglianza a un ironico contrappasso nei confronti dell’umanità da parte del fato in perfetto stile Philip K. Dick. Il problema non sono macchine che si rivoltano contro i padroni, ma la contaminazione con esse quando ci si dimentica dei costituenti essenziali che fanno di un bipede una coscienza a sé stante.
Negli ultimi tempi sta saltando fuori la nuova generazione di device che seguono la tendenza del quantified self, braccialetti e altri accessori che servono a ricavare dati da chi li usa, dati che potranno essere condivisi, utilizzati per l’automiglioramento o per rendersi più semplice la vita. Dalla misurazione del livello di caffeina nell’organismo a orologi che ci svegliano alla fine della nostra ultima fase rem. Mentre i reazionari trentenni criticano scazzati i millennials che postano selfie seminudi su Instagram, accusandoli di mercificare la propria immagine e al tempo stesso mangiandosi il cazzo di non aver avuto tanta libertà nella loro adolescenza, la FWD.us, in quella silicon valley dove il codice si è fatto carne, sta tentando di costruire un avvenire degno di una fiction oscura su una codipendenza autoindotta della nostra razza.
Il modo in cui le multinazionali fanno digerire questo cambiamento alla gente è tramite una buona politica di marketing, la stessa che ha portato a girare uno promo dei Google Glasses su una giornata tipo di un hipster di Brooklyn con tanto di ukulele, distraendo dall’aspetto à la Strange Days.
Queste politiche portano anche a produrre sit com della HBO su dei simpatici developer che curano la loro giovanissima azienda in modo etico, accennando appena ad una intera nuova classe lavoratrice dalla percezione distorta della realtà.
Al di là del giudizio sul film di Spike Jonze, i canoni interpretativi impostici dal buon senso che ci ha infuso la società civile, la stessa di Mani Pulite e Vallettopoli, ci spingono a scandalizzarci del rapporto amoroso del protagonista con un sistema operativo. Ma quando arriva il finale risolutivo con un software che vola via, avendo modalità fondamentalmente distanti da quelle dell’umano Joaquin Phoenix, tutti tirano un sospiro di sollievo, capendo che i rapporti veri sono solo tra nati-da-vagine, dando della troia alla voce di Scarlett Johannson, la quale prova emozioni diverse in diversi luoghi con persone diverse e tutto nello stesso momento. L’ipocrisia risiede nel non ammettere che il comportamento di Scarlett/OS riflette quello nostro sui social network, con il multitasking arrivato alla radice dei sentimenti. E quando niente più funziona, rimaniamo come degli stronzi a fissare il vuoto su un tetto dopo aver affidato la parte più importante di noi a un servizio tecnologico, esattamente come il protagonista di Her. O schiacciati dallo stesso sistema tecnologico che abbiamo costruito con tanta dedizione, dopo avergli affidato la parte più importante della nostra società, esattamente come accade in Black Mirror.