I The Roots sono sempre stati l’antitesi dell’hip hop tutto patina e Fubu, lontani da skill funambolici o turntabilism che guardano ai cieli come al limite. Se vogliamo invece, sono più figli o figliastri di un’America più “cantautorale” e introspettiva, dove come satelliti guardavano e filtravano immagini di una cultura, quella hip hop afro americana, da cui come inizialmente detto hanno saputo tenersi tendenzialmente ed anche abbastanza volutamente lontani. Ecco come quest’ undicesimo album del gruppo suoni allora come un vero e proprio funerale o meglio requiem concettuale rispetto a cliché predefiniti, tanto nella musica quanto nei testi dell’hip hop americano inteso non solo come cultura, ma come intera società civile di questa America post 9/11 in cui un presidente nero governa spesso contestato più dalla sua stessa gente che dai w.a.s.p. Disco concettuale dicevamo, difficile, spigoloso, poco melodico, con partiture classiche e poco armoniche. Non sbaglia chi l’ha definito una suite classica, intrisa di melanconia grottesca aggiungo io, le volute dissonanze musicali sono critiche e compongono la vera satira di un album che suona come un “monito medioevale” anche ricordando opere classiche di feroce analisi ed invettiva politica. Qui la voce del padrone la fanno piano e organo, sample pre registrati e buttati lì a spigolo nascosto. La melodia è solo in realtà per i ricordi e relegata a piccole schegge di pianto e riflessione. In ultimo i testi: alienazione, solitudine, assenza di speranza, perdita di fiducia per risposte che forse non arriveranno mai, dove quello che rimane è solo una semi piena scatola di Apple Jack. Ecco che le rime o meglio le parole sono come colpi di un rasoio con lama ormai invecchiata e sporca, pronta a infettare chi vorrà leggere e capire. Quindi che dire in ultimo di questa opera breve? Certo non piacerà a chi ha sempre vestito Fubu o Karl Kani o a chi lucida ancora le Jordan con lo spazzolino da denti. Un altro disco di Hipster rap? Nemmeno. Troppo ragionato e per niente genuflesso alle dinamiche hipster per pensare di esserlo. Che rimane? Un disco da ascolto profondo, maturo, da discussione e riflessione, un disco di grande e profonda letteratura su cui ride e sorride perfido quell’Elvis Costello che con i The Roots oltre ad averci fatto un disco, sicuro deve aver parlato di questa malattia.