Quanto è grande la banconota da un milione di dollari? Su, coraggio, tutti da bambini ci avete pensato almeno una volta immaginando qualcosa di sensazionale con cui poter comprare tutto quello che esiste, e viaggiare all’infinito manco foste il giovane Holden versione 2.0.
Nasce da questa puerile convinzione, ispirato da un racconto di Silvio D’Arzo, il titolo di “A Million Dollar Banknote” brano realizzato da Perfect Swimmer, producer italiano trapiantato a Berlino, che è, a voler essere sintetici, di una bellezza ammaliante. Un’armonia di suoni perfetta, con synth melodici e beats sperimentali. Perfect Swimmer all’anagrafe è Massimo Tortola, un Bachelor of Music presso la University of West London, un passato da bassista, ed un disco in uscita composto da 7-8 tracce, per un’ora di musica vera. Ad accompagnarlo c’è il video del filmaker Dario Alejandro Barletta, realizzato circa 10 anni fa, durante il giro del mondo da lui intrapreso, pur senza la banconota dal milione di dollari.
Ma oggi non siamo qui per parlarvi di questo. O meglio, non siamo qui a parlare solo di questo. Il brano infatti, è inserito in un progetto editoriale inedito e creativo. L’idea, curata da Roberta D’Orazio, è quella di EP (che faccia anche da preview al primo album di Perfect Swimmer) che contenga “A Million Dollar Banknote” da cui l’intero progetto prende nome, un remix di “My Story Is Not My Destiny” dei Two Fates , ed un ebook totalmente ispirato alla titletrack.
Ecco, l’ebook. Immagini e parole, per decifrare in modi diversi la gamma di emozioni che il brano è in grado di fornire. Ci sono le parole di Chiara Longo accompagnate dalle immagini a forte valore simbolico di Valeria Pierini(anche editor dell’intero progetto), c’è Angela Giorgi che ci racconta una Berlino a suo modo diversa, con l’aiuto delle immagini in bianco e nero di Riccardo Ruspi e poi c’è Roberta D’Orazio, che trasportata dalle visioni di Maria Stefania Musumeci, racconta il brano che vi proponiamo in anteprima assoluta.
“Nucleare” passa da Chernobyl, si nutre delle onde melodiche del brano, per dipingere un affresco sotto sotto iconico dei nostri tempi, della paura delle differenze e della non accettazione.
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” Mia madre non ebbe disgusto di me quando – ostetrica improvvisata del proprio unico parto – mi vide per la prima volta. Non pensò a me come il frutto dell’abominio, né di una natura per sempre compromessa, nonostante i chilometri di terra arsa e le distese di cemento e fantasmi che circondavano la sua perfetta solitudine. Nonostante il mio aspetto, distante dalle benedizioni degli dei.
Ero, del resto, la sua bambina.
Diversa, sì, ma non abbastanza da non somigliarle.
Non abbastanza da non appartenerle almeno un po’.
Così mia madre pensò, piuttosto, di dovermi liberare.
Dai pilastri stregati che lei chiamava ancora casa, non era lunga la strada che conduceva alla palude. Se mia madre fosse stata una donna cattiva, l’istinto l’avrebbe guidata da quelle parti. Ma non era il luogo adatto ad una creatura neonata.
Così, se io potessi ancora ricordare, vi racconterei di mia madre che, sfidando le ingiurie del vento, correva.
Di certo, mi dimenavo tra le sue braccia affaticate dal peso del mio corpo variopinto e bizzarro.
Eppure conservo nella memoria atavica il colore violaceo delle nuvole malate e meravigliose che insorgevano maledicendo il nostro cammino, il suono di passi che non avrei mai compiuto ma che pure detonavano più di quanto sapessero fare le perpetue e irregolari esplosioni del cuore cui lei mi stringeva forte, nel timore sensato che io potessi scivolare via.
Nessuno mi ha mai parlato di Pryp’jat’, fosse anche solo perché nessuno, durante questi anni, mi ha mai parlato. In condizioni totalmente diverse, ho ereditato dalla donna che mi ha messa al mondo una forma di isolamento che tuttavia non mi procura eccessivo dolore.
Nessuno mi ha parlato di Pryp’jat’, ma io so. Per qualche motivo che sono incapace di decifrare, la mia vita è il vaso di Pandora di ricordi che non mi appartengono e che pure io conservo entro i provvidenziali confini delle mie improbabili fattezze.
Conosco l’esatto numero dei giorni che dalla mia città natale occorrono per arrivare a Skadovs’k, dove ho trovato una nuova casa che mi ha accolta come se in me non vi fosse irregolarità alcuna.
Conosco le sfumature del terreno su cui la vegetazione ostinata reclama il proprio spazio smembrando con veemenza gli edifici fatiscenti che non contemplano la presenza di nuove anime, e resto ammaliata dalle modalità imperiose con cui la natura, così distante da tutto ciò che mi riguarda, impone la propria assurda volontà. Conosco i nomi degli sciacalli che si introducevano nelle abitazioni in pieno giorno, dopo il disastro, certi che nessuno li avrebbe mai disturbati. Trafugavano qualsiasi cosa, dalle mattonelle agli infissi, i mobili e gli indumenti, per venderli a poco prezzo al mercato nero ucraino.
Signorina, quel vestitino le sta benissimo! gridava il commerciante alla giovane donna che desiderava un abito nuovo, arma infallibile per sedurre l’uomo dei suoi desideri.
Non era necessario, pensava il commerciante, dirle che il quantitativo di radiazioni che la stoffa aveva trattenuto era di gran lunga superiore a quello che il corpo potesse sopportare. La ragazza avrebbe continuato a indossare gioiosa quella gonna troppo corta rispetto alle sue lunghissime gambe, e mai avrebbe ricondotto a quell’esercizio di vanità il livore austero che la sua pelle le avrebbe restituito da lì a poco.
Né si doveva spiegare alla signora che aveva acquistato un vaso in ceramica il motivo per cui i suoi fiori sarebbero puntualmente appassiti, proprio come lei.
E quando le onde non mi cullano abbastanza da farmi addormentare, so distinguere chiaramente tra le visioni le sagome dei numerosi animali ormai padroni delle molteplici stanze abbandonate: lupi, volpi, orsi camminano superbi, sognano nei nostri letti sfatti.
Conosco il benessere che prosperava prima di quell’apocalisse stanca e viziata nella città simbolo della modernità, so benissimo del parco giochi e della ruota panoramica custodita da un pupazzo gigante accanto alla biglietteria ormai vuota, e di certo i miei genitori mi avrebbero portata a giocare lì, se il destino non l’avesse impedito con i propri artigli smaltati.
Conosco i nomi degli uomini che compirono il grande errore che indusse ossigeno ed idrogeno a trasformarsi in armi mortali.
Mio padre era uno di questi.
Quando gli altoparlanti imposero l’imminente evacuazione, mia madre non obbedì. Mio padre non era ancora tornato dalla centrale di Chernobyl, dove lavorava, e mai sarebbe andata via senza di lui, nonostante l’annuncio dicesse chiaramente, in maniera del tutto bugiarda o forse ingenua, che gli abitanti sarebbero potuti tornare nel giro di pochi giorni, e tutti credettero a quanto veniva proferito, lasciando la propria casa come chi sia costretto ad uscire per pochi minuti, in vista di un rientro imminente. Tuttora mi commuove l’idea che a distanza di decenni, Pryp’jat’ conservi nell’immobilità perfetti quadri di vita quotidiana.
Attese immobile, fino alla mia nascita, fino a quando le sue braccia accolsero la sua unica figlia, con il corpo di bimba e una coda da sirena.
Io, un piccolo bellissimo mostro.
Ciò che molti considerano un’orrenda tragedia, diventa la radice della mia unicità, quando i fondali del Mar Nero ammiccano e le mie lacrime si perdono nella trincea scura in cui le acque si agitano e lo spirito si acquieta, mentre il cuore conserva, lontane da occhi indiscreti, le miserabili vergogne del mondo. ”
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