Artemoltobuffa è il nome d’arte, ma anche l’anagramma di Alberto Muffato. Un artista molto originale, una di quelle voci che fanno bene alla scena indie italiana pur rimanendo materia “per intenditori”. Non deve perciò destare stupore il fatto che da 7 anni non pubblicasse dischi o Ep: il suo ultimo full lenght, “L’aria misteriosa” (uscito nel 2007 per Aiuola dischi) resta una perla, impreziosita da una delle più belle canzoni italiane che quel decennio abbia lasciato.
Il 9 giugno scorso è uscito “Las Vegas nel bosco” (pubblicato da Lavorare Stanca, etichetta gestita da Fabio De Min dei Non Voglio Che Clara – che ne è anche il produttore), quarto disco di Artemoltobuffa. Di fianco ad Alberto Muffato (che ha composto testi e musiche di tutti i brani, eccetto Il crepuscolo, firmato da Mark Kozelek), che canta e suona chitarra elettrica ed acustica e tastiere, nelle registrazioni sono stati impegnati il già citato Fabio De Min (basso, tastiere, chitarre, cori e percussioni), Massimiliano Bredariol (batteria e basso) e gli ospiti Mario Pigozzo Favero (voce dei Valentina Dorme, alla chitarra ne I terrapieni e alla voce ne I testoni) ed Emiliano Pasquazzo (al basso in Fino a lunedì).
Abbiamo chiesto ad Alberto di raccontarci questo suo bel disco, che potete ascoltare in streaming integrale su Spotify. A voi.
1. Il bello delle onde
Il 7/8 è un ritmo che incatena una battuta all’altra, come onde che si infrangono sulla spiaggia in un giorno di vento. Ho immaginato di trovarmi sulla battigia e osservarle mentre si avvicinano, come un surfista. Poi sono arrivati i synth acidi e le code strumentali Yo La Tengo.
2. Las Vegas nel bosco – parte 1
Da sempre trascorro parte delle mie estati in Val di Pejo, la valle da dove proviene mio nonno. Lì c’è ancora la sua vecchia casa, che negli anni è diventata luogo di villeggiatura per figli e nipoti. Siccome mia madre è l’undicesima di dodici figli, spesso mi è capitato di trascorrere le estati in compagnia di qualche zio e di molti cugini. Ma si sa: la vita di montagna, anche durante le vacanze, non presenta molte attrazioni per un ragazzo, e spesso bisogna accontentarsi del poco che c’è. “Las Vegas” è appunto il nome di una scalcagnata sala giochi che durante la mia adolescenza costituiva l’unico punto di incontro per i giovani. Poiché la sala giochi si trovava a monte del paese dove soggiornavamo (circa 400 metri più in alto!) spesso io e qualche mio cugino eravamo costretti a fare l’autostop per raggiungerla, attraverso una strada che si inerpica nel bosco. Naturalmente l’obiettivo della serata (conoscere qualcuno, magari qualche ragazza) era regolarmente mancato. Così, spesso, dopo aver trascorso ore a rincretinirci sui videogiochi, intorno alla mezzanotte scoprivamo di non poter contare su un passaggio in auto, per tornare a casa, ed eravamo perciò costretti a scendere a piedi attraverso il bosco.
Il brano cerca di raccontare tutto ciò: la fascinazione di un’immensa insegna lampeggiante nel buio, la malinconia dei miei quindici anni, la stagione ormai tramontata delle sale giochi (descritta impeccabilmente nel film “Ralph spaccatutto” della Pixar), il mistero di una passeggiata notturna nel bosco. Ma oltre a ciò, questa “Las Vegas” costituisce un esempio lampante del talento di Fabio De Min, che ha saputo trasformare una demo scombinata in un tripudio di suggestioni sonore.
3. Fino a lunedì
Questa è dedicata all’amore dei pendolari, al tormento dell’attesa, agli eurostar, agli incontri nelle stazioni ferroviarie. Fu pensata anni fa per un’interprete femminile, che però non si risolse mai a interpretarla. A lungo è rimasta incisa senza una batteria, e mancava sempre qualcosa. Poi è arrivato Massimiliano e l’ha sistemata in 5 minuti.
4. I terrapieni
«Vi abbiamo stancato con le nostre chiacchiere» disse Anan´ev sbadigliando e guardando il cielo. «Be’, che altro c’è da fare, caro mio! Gli unici piaceri in questa noia sono bere vino e filosofeggiare… Che terrapieno, Signore» si commosse quando ci avvicinammo al terrapieno. «Questo non è un terrapieno, ma il monte Ararat.»
Rimase in silenzio per qualche tempo e disse: «Queste luci al barone ricordano gli amaleciti, mentre a me sembra che somiglino ai pensieri umani… Sapete, i pensieri di ogni singolo individuo sono anch’essi gettati disordinatamente in questo modo, si tendono verso uno scopo lungo una stessa linea in mezzo alle tenebre e, senza illuminare niente, senza rischiarare la notte, scompaiono chissà dove, lontano dietro la vecchiaia… Ma basta filosofeggiare! È ora di andare a nanna…»
5. Fiori d’ombra
Forse il mio brano preferito. L’idea di una canzone interamente dedicata all’ombra mi accompagna da tanto tempo. Ho scritto e riscritto mille volte il testo – le cui strofe sono tutte impostate su uno schema metrico ABBA, perché dopo tutto in questa specularità è già impostato il tema di fondo dell’ombra. Dal punto di vista dell’arrangiamento, a suo modo, costituisce un piccolo tributo a “Little Arithmetics” dei dEUS. Per sfiorare il plagio, io c’avrei aggiunto pure un organetto, ma il produttore non ha voluto!
6. Tenere assieme
Qui ho provato a sviluppare un intero brano attorno a una progressione di 4 tonalità – DO-RE-MI-FA#. Coerentemente con questa impostazione pseudo-architettonica, il testo parla della difficoltà di scrivere o comporre – nel senso letterale di “tenere assieme” – e nel passaggio attraverso le quattro tonalità ho cercato appunto di tematizzare (a modo mio) la processualità della scrittura: “mettere in fila parole”, “guardare”, “trovare un nome”, “tenere assieme”. Obiettivamente è un brano un po’ concettoso… non mi era mai capitato di scrivere una canzone con così tanti accordi: Fossati sarebbe orgoglioso di me.
7. Sentimento scaligero
La passione per le scale mi accompagna da “Stanotte/Stamattina”. Ho sempre pensato che esista un sentimento della scala: il desiderio di salire una scala per incontrare qualcuno. Il resto è tutto nel testo, non c’è molto da aggiungere.
8. Il crepuscolo
Ricorderò sempre la prima volta che ascoltai “Down Colorful Hill” dei Red House Painters, una decina d’anni fa. Già in quel brano mal registrato si affacciava l’immagine di una coppia che discende da una collina. Nel tempo ho coltivato l’idea che quei due innamorati siano gli stessi di “Grace Cathedral Park”, un brano che ho ascoltato allo sfinimento, e che costituisce per me una delle testimonianze più lampanti del genio di Mark Kozelek, della sua capacità di fissare un momento in una canzone, e di dare voce al tormento amoroso. Ognuno di noi, prima o poi, ha provato lo struggimento di desiderare qualcuno alla follia e sapere allo stesso tempo che non sarà mai l’amore della nostra vita (“and I know for sure that you’ll never be the one”). In nessun brano che io conosca, questo struggimento è stato descritto con tanta precisione. Questa versione in italiano vuole essere un umile tributo al suo ombroso autore.
9. Una piega del tempo
Un giorno qualcuno mi ha spiegato cosa fosse il middle-eight – la variazione di 8 battute che interrompe lo schema strofa-ritornello nella canzone pop. Subito mi son industriato a inserirne uno nel brano su cui stavo lavorando. Ne è uscita questa ballata claudicante sul trito tema dell’“irripetibilità”, che un po’ fa il verso a Stephen Malkmus, un po’ serve a ricordarmi a cosa servano, nella vita, le chitarre elettriche.
10. Las Vegas – parte 2
Piccolo interludio elettronico scritto da Fabio per completare il quadro alpestre di “Las Vegas nel bosco” – voce muschiosa che riecheggia il refrain della prima parte, chitarra con lo slide bagnata nel riverbero, synth anni ottanta. E discende la notte.
11. I testoni
Un manifesto in difesa della monotonia, della ripetitività, degli immaginari ossessivi. Pur ammirando chi in letteratura (o in musica, o nel cinema, o in architettura) sa cambiare argomento e registro con facilità, nel mio intimo so di preferire chi nella propria opera si trova (a volte suo malgrado) nell’impossibilità di inventare, di innovare. E solo nella infinita variazione di pochissimi temi ricorrenti, nell’analisi delle mille sfaccettature di un problema che lo ossessiona, nella minuziosa ricostruzione di un momento trascorso, riesce a trovare la propria voce, e ad abolire, in qualche modo, lo scorrere del tempo. Da subito ho pensato di volerla registrare con Mario Pigozzo Favero, delle cui canzoni ho sempre amato l’elemento ossessivo. Ne è uscito questo brano desertico in pieno stile “americana”, dove per la prima volta in vita mia ho potuto registrare un assolo di chitarra!
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