Lo scorso weekend, 4-5-6 luglio, si è tenuto a Londra il Wireless Festival, quest’anno nella sua decima edizione nonché la prima per la reda di DLSO. Tra gli act che si sono esibiti c’erano Kanye West, Pharrell Williams, Wiz Khalifa, Kwabs, Basement Jaxx, Outkast, Azealia Banks e una marea di altri nomi che puoi leggere qui.
Siamo partiti carichi a molla e siamo tornati che lo eravamo ancora di più. Il perché te lo spieghiamo nel nostro pagellone di up & down, dove gli up non si contano sulle dita di due mani, mentre i down facciamo davvero fatica a trovarli. Il giudizio finale? Nella vita non sei mai andato ad un festival fatto bene, se non hai messo piede almeno una volta al Wireless di Londra.
Ma andiamo per punti.
L’organizzazione.
Giudicare per voti non appartiene allo stile DLSO, ma se dovessimo attribuire un numero da 1 a 10 all’organizzazione sarebbe sicuramente il massimo. Dietro le quinte del Wirelss ci sono i ragazzi della 02 arena, che è un po’ come affidare la finale dei Mondiali di calcio a Pirlo: garanzia di spettacolo puro. Figlio di un’estetica alla MTV, colorato, fresco, elegantemente pop, impiega una mole di persone super professionali il cui unico scopo è rendere l’esperienza il più godibile possibile per il pubblico. Un esempio su tutti: un’area rialzata dedicata alle persone disabili da cui assistere agli spettacoli. Musica per masse, in cui nessuno è escluso.
La location.
Finsbury Park non si trova esattamente al centro di Londra e riuscire a spostare 70.000 persone al nord della città è un’impresa non indifferente. Farlo con una lineup quasi completamente Hip Hop, ti fa già comprendere che impatto popolare abbia questo genere sul pubblico inglese. Lo sterminato parco offre di tutto: una vastissima scelta di cibi etnici, churros, area merchandising, un main stage degno di San Siro, due palchi minori firmati Pepsi e il boombox stage dove si esibiscono gli act locali. Il tutto immerso in un verde brillante spento solo dalle battenti piogerelline inglesi di metà pomeriggio.
Il pubblico.
Sulla carta, immaginare quale sarebbe stato il pubblico del festival non era difficile: una lineup pop e commerciale di questo tipo, soprattutto per gli standard UK, attira una platea eterogenea sia per età che per gusto. Ma l’elevato prezzo del biglietto rappresentava un indubbio ostacolo all’ingresso e supponevo potesse costituire una prima naturale scrematura. E invece no: tantissimi ragazzini, classe media e qualche shampista incosciente della sua cellulite allo stadio di cancrena.
Le esibizioni.
La maggior parte dei concerti hanno lasciato sulla mia faccia una sola espressione: WOW. Venerdì 4 ho optato per quelli di Basement Jaxx, Pharrell e sua maestà Kanye West. Pharrell diverte, ma non convince: una mancanza di voce non indifferente, un palcoscenico un po’ scarno, la scelta di alternare le sue produzioni a quelle realizzate per altri come Hollaback Girl e ai feat. storici come Drop It Like It’s Hot, hanno reso lo spettacolo bello, ma non memorabile.
Basement Jaxx P-A-Z-Z-E-S-C-H-I. Il duo inglese prende il pieno possesso del palco minore ricordando agli inglesi che sono i padroni di casa. Una festa caraibica esplode: ballerine vestite da première étoile del Cigno Nero, big mamas da coro gospel, Felix e Simon in veste di santoni della cassa e tutte le loro hit in fila per due: Where’s Your Head At, Romeo, Do Ya Thing e una deflagrazione di colori sudamericani mescolati all’atmosfera di un rave club dei 90es.
Infine, il grande atteso: avrà passato la prova a pieni voti Kanye? Alti sì, ma non pieni. Il rapper americano ha portato sul palco uno show minimale, ma potentissimo. Solo sullo stage, accompagnato dal suo DJ e da un blocco monolitico che rimandava immagini di scroscianti cascate, West non portava in giro il suo Yeezus Tour e ha quindi alternato le big tunes del passato alle chicche dell’ultimo album. Una cattivissima versione live di Black Skinhead ha aperto il cerchio, seguita da Runaway, All Of The Lights, una romanticissima Bound 2 e la chiusa finale con il calore della voce di Nina Simone in Blood on the Leaves. Peccato che nel mezzo di questo concerto mozzafiato Yeezi abbia pensato di intraprendere un discorso ispirazionale sull’essere se stessi, sul diffidare dai media e sul quanto lui sia più umano di come lo dipingano. Alla fine della fiera “don’t discriminate me cause I’m famous”.
Il day 2 lo dedico tutto all’ascolto dei talenti “minori”: orfano del live di Drake, il Wireless piazza nuovamente Kanye come headliner ma evito il bis immaginando un concerto fotocopia (e così di fatto è stato). Nel pomeriggio mi godo le esibizioni del neo talento Kwabs con le sue Wrong or Right/Last Stand accompagnato dalle emozionanti seconde voci; di Earl Sweatshirt, che manda in estasi la folla di ragazzini in cappellino alla pescatora, senza tuttavia lasciarmi nessun brivido. E di un ottimo Chance The Rapper, che ha performato tutto Acid Rap insieme ai suoi strumentisti jazz da capogiro
Sul palco principale si succedono un’Azealia Banks che ha portato la bella presenza ma non certo un timbro memorabile e un Wiz Khalifa che non era nelle mie mire, ma che strappa sempre un karaoke con Wild, Young and Free.
Domenica, terzo e ultimo giorno di un festival finora promosso col pollice alto. Le mie orecchie si dividono tra i violini dei Clean Bandit, Born Sinner di J.Cole, Sean Paul (ebbene sì, il resuscitato-per-l’-occasione Sean Paul) e l’attesissimo concerto degli Outkast. Big Boi e Andre 3000 sono i king assoluti della scena: opposti ma affini, posato e ironico il primo, magro ed energico l’altro, si presentano sul palco per festeggiare i primi vent’anni di carriera, che ripercorrono attraverso tutte le mega hit. Mrs Jackson, Roses, I Like The Way You Move cantata dal vivo con l’affezionato Sleepy Brown, So Fresh So Clean e una presenza scenica come neanche un circo di trapezisti.
Disclaimer: il pezzo che stai per leggere parlerà in termini molto entusiasti di Bruno Mars. Interrompere immediatamente la lettura in caso di disappunto. Bruno Mars live è un’esperienza commovente. Il ragazzo di Honolulu ha imparato a menadito la lezione sulla musica pop impartita da Michael Jackson, mutua lo stile swing di Duke Ellington e li rimescola col suo personalissimo approccio sudamericano. Non sto a parlarti della setlist, che pure conoscevo a memoria, ma Bruno ha una voce che ti fonde i timpani, un carisma raro e la faccia da chi è nato per incarnare la musica popolare.
Grazie Wireless Festival, metterò una parola buona per te con tutti i regaz.