Alla fine dell’ascolto dell’album, resta nulla della musica, nessun ritornello da cantare, nessun motivo da fischiare, alla fine dell’ascolto restano solo tracce sul corpo, impronte. Lunghi solchi attraversano il petto, cingono le braccia e i polsi, riaffiorano sull’addome, immateriali inibiscono i movimenti e costringono. Un rossore divampa ancora sul collo, i profili sono incerti, come se troppe mani avessero giocato al dominio. Si tenta ancora di regolare il respiro, si attende ancora che il circolo sanguigno torni uniforme, si accarezza l’arrossamento, o forse si cerca di ripetere gli attimi prossimi allo strangolamento. Si dice che una stretta costante e decisa attorno al collo, esercitata un attimo prima dell’orgasmo e trascinata al limite dell’asfissia, conduca ad un abbandono dei sensi che sublima il piacere fisico e psichico fino al trascendentale. Alla fine dell’ascolto dell’album ci si sente come recenti vittime di questa pratica, è difficile capire se solo sognata, o vissuta sulla pelle la notte precedente, è il disorientamento tipico dei dejà vu. Gli echi di quella voce sospirata, evanescente, ancora si spargono. La voce è un costante sussurro sibilato, nato dalle labbra appena dischiuse e infranto sulle pareti dell’orecchio, pare si assottigli. Sono parole che inquietano quelle sussurrate, opprimono come le corde strette al petto, e gettano in uno stato di timore, timore misto ad eccitazione. Le fantasie prendono sempre più corpo durante l’ascolto, così come cresce il piacevole disagio, nutrito dai repentini cambi d’umore della suadente voce, ed è semplice rivivere tutto, come riguardando un videotape, ripercorrendo tutte le scene in rewind.
Con “Kicks” lei era ai piedi del letto, il gioco interrotto, le corde strette in mano, la testa bassa a nascondere gli occhi, credeva che dominarmi potesse liberarla dall’opprimente dipendenza nella quale era caduta; non cerco mai di sollevarle il mento, lascio la camera e lei ha solo la forza di dire “I’ll make my own damn way”. Non so il motivo per cui non ho provato pietà sapendola ancora sul pavimento, con le ginocchia unite, e i capelli sudati distesi sulla fronte come fiori d’inchiostro, né il motivo per cui non ho avuto compassione, su “Give Up”, nel sentirla ripetere con fragile convinzione “i’m not gon let you give up babe”, come se avesse voluto minacciarmi o come se avesse voluto infondermi sicurezza, ma quella smorfia di pianto, che le labbra non sono riuscite a nascondere, mi ha solo reso ancor più detestabile quel viso. So che quel gioco sarebbe finito male se non me ne fossi andato, il modo in cui ha recitato “Closer” la rendeva una sacerdotessa impegnata in un canto religioso, una preghiera, forse per un attimo davvero è stata vicina a qualcosa che cercava da tempo, e forse ero io. “Closer, i’m here to be closer, to you, to you to you”. Mentre colava cera dalle candele. Era una baccante in atto d’offrirsi al proprio dio, su di un altare, quello stesso altare sul quale pensavo avrebbe sacrificato me, quando le sue mani erano così strette intorno al mio collo che quasi la vista mi si annebbiava, quando il piacere era così dipendente dal dolore che quasi non riconoscevo più lo scopo di quel gioco. “Numbers”, “was i just a number?”, chiedeva stremata, stringendo i denti, ma senza concedermi la possibilità di rispondere, sembrava capace di tutto, le sue pupille tremavano dal rancore, “tonight, do you want to live or die?”. E per un attimo ho pensato di poter morire sul serio, senza aria, o dagli spasmi di godimento. Mentre mi stringeva le corde intorno al petto e alle braccia, “Video Girl”, “you lie, you lie, you lie”, era un coro con le sue lacrime, tenendomi stretta la mascella, come fossero state parole d’amore, e in fondo lo erano. Ma d’amore in quel luogo non ce n’era, l’aveva risucchiato tutto lei, mescolandolo alla vendetta, la lussuria, e l’odio. Avevo lasciato che facesse del mio corpo ciò che volesse, ne godetti, finché non tradì la recita della dominatrice, mostrandosi in realtà ancora mia prigioniera, devota, sul lento dondolare di “Pendulum”, confessando “so lonely trying to be yours, when you’re looking for so much more”. Non ero più una semplice perversione. “I can kiss you for hours” aveva appena sussurrato un minuto prima, in piena possessione di me, facendo sue le mie labbra. Volevo mi possedesse, ero come narcotizzato dal suo sapore, e ogni volta che strattonava le corde che mi tenevano i polsi, stringendoli, venivo pervaso da un tumulto. Aveva una sigaretta tra le dita, e lasciava che il fumo si liberasse dalla sua bocca per accarezzare la mia pelle, e quella carezza mi schiavizzava. Mi chiese di fare lo stesso, “my thighs are apart for when you’re ready to breathe in”, “Two Weeks”. Non avrei pensato avesse potuto soggiogare il mio corpo alla sua erotica autorità, mi aveva trascinato lì con fare educato, modesto, “when i trust you we can do it with the lights on”, mi sfidò. Alla fine dell’ascolto dell’album, questo è tutto quello che ricordo.