Divano in pelle nera, denso e marmoreo, si perde poi nell’arredamento, nell’ambiente, subito dopo aver risolto l’immagine austera di lei che è seduta a sinistra, con la mano pesante d’acciaio gravante sul bracciolo. Giustificarsi è difficile, avvicinarsi è difficile, come se lei avesse avuto il potere di aprire ai suoi piedi una crepa nel pavimento, dalla quale fuoriesce vapore glaciale, una frattura grande abbastanza da minacciare l’oblio. La stanza diventa così senza limiti spaziali, tutto svanisce nella negazione di luci, ogni oggetto pare essersi schierato dalla sua parte, e ora è coro del suo insostenibile distacco. Il suo vestito è casto e critico, lungo fino ai piedi, nasconde le gambe e le ginocchia unite, lungo fino ai polsi, stretto intorno al collo, ma è impalpabile, perfettamente in tono col resto dell’ambiente. Non si sforza nel parlarmi, a stento mi rendo conto che la voce proviene dalle sue labbra, il suo viso, nonostante alto e ancora fiero, è coperto da una mesto velo che m’impedisce di percepirne l’espressività. Non riesco a non sentirmi una vittima sacrificale. I cori mi travolgono come fossi davanti una gigantesca turbina e a stento riesco a mantenermi in piedi per la violenza del vento. La voce è spoglia di ogni umanità, è tagliente, a volte agghiacciante. Monumentale e divina, è impenetrabile e rabbrividisco alla sua supplica: ‘convince me that i am not a monster’. Mi stupisco della freddezza con cui affronta gli argomenti, narra di tutto con indifferenza e con perfetta lucidità, e quel suo essere ad ogni costo lontana mi disturba, quasi mi confonde nel ricordare ci fosse lei con me fino ad ora. Si erge come una dea sul suo altare, ma la sua recita è così fedele che tradisce l’autenticità. Ora è in piedi, davanti al divano di marmo, e il vestito è così tornito da farla sembrare una colonna perfettamente levigata. La crepa nel pavimento è diventata un burrone, e siamo ai due margini, il candore del ghiaccio contrasta con la stanza nera, col vestito, col divano, con gli oggetti, e il suo viso. ‘Cold’ è la parola che lei utilizza di più, ed ogni volta che la pronuncia il suo labiale si muove in slow motion. Nei suoi discorsi accusatori, disfattisti, non riesce a mostrarsi agognante, ma solo vittima, ‘you turned me into this’. Parla di errori, ma mai di ferite, lei osserva tutto, lei subisce, ma pare non provare alcuna forma di sincero dolore. Arriva a sembrare macchinatrice e il sospetto che lei abbia voluto portarmi di proposito fin qui, che abbia architettato ogni singola trappola contro di me, si fa spazio, avvalorato dai continui ‘You should have known’. Ma miseramente non ho la forza per controbattere, tutta la mia forza l’ha assorbita lei, all’interno del suo impalpabile vestito, all’interno dei suoi capelli rigonfi, all’interno di quella densa coltre che nasconde il suo sguardo. ‘Secretely i think you knew’ aggiunge. Mi spaventa quell’Atena, mi sento preda del suo diletto. In modo incoerente si prende gioco di me, e la sua voce cambia tono, da corale, mistica e iraconda, diventa flebile, pastosa e sgradevole, fingendosi devota e pregandomi di esserle fedele sussurrando ‘please don’t fall in love with someone new’, ma a queste parole inorridisco, e faccio un passo indietro verso il baratro di ghiaccio che è alla mie spalle, e non capisco più chi sia il boia e chi la vittima. La stanza, il divano, gli oggetti, è tutto ora ricoperto di un sottile strato di ghiaccio, tranne lei, che muove passi sul confine del precipizio, creando leggere fratture ogni volta che un tacco irrompe sul pavimento glaciale. Il suo enigma costringe la mie emotività, così come i movimenti sono limitati, ho ormai solo un stralcio di suolo sotto i piedi, le voragini hanno dilaniato l’ambiente, succede man mano che la sua voce si assottiglia, s’imbruttisce.
Tolgo le cuffie. Goddess di Banks è certamente un album che ha fatto propria la lezione dell’elettronica emotiva, ma ha commesso l’errore d’immischiarsi con l’acustica inutilmente straziante e straziata.