Del trio siculo Omosumo vi avevamo già parlato in occasione dell’uscita di “Nancy”, secondo singolo estratto dal loro album d’esordio Surfin’ Gaza che proprio oggi esce per Malintenti Dischi.
Il disco è un esperimento interessantissimo che mette insieme suoni sintetici e intenti folk, rock o d’n’b.
Anche questo qui che segue è un esperimento per noi di Dlso, perché non leggerete il solito Disco Raccontato nella maniera della track by track che conoscete già, ma un’unica narrazione introspettiva in cui vi sembrerà di incontrare quei personaggi timidi e introversi di David Grossman che si rincorrono tra le dune di sabbia ocra verso tramonti che non conoscono i colori delle bombe.
Lavoro in biblioteca, nella sezione medicina ed erboristeria.
Oggi mi ha svegliata un trapano. Anzi due. Il primo, quello di un paio di muratori che stanno abbattendo delle mura e tirandone su altre, trapanando le meningi di una ipotetica cucina, di un ipotetico bagno, di una ipotetica camera da letto. Il secondo è quello di una telefonata. Quella voce, giovane e forte, mi ha smosso l’inconscio, mi ha bloccato il respiro, l’ho riconosciuta. Si è innestata nella mia testa come un synth freddo e glaciale, pulsante più del mio cuore in questo istante, battente come la lingua di un tamburo su un ricordo fervido della mia giovinezza: quando la mia città in questa valle protetta dalle montagne colorate che finivano sul mare veniva inginocchiata da una pioggia di bombe aeree dal mirino facile. La mia famiglia si era dispersa. Io non abitavo più in città. Vivevo dentro a un albero e scrivevo e disegnavo sulle foglie. Quello che vedevo era una sorta di film dal vero, un quadro della natura a morsi con la storia, il suono di un basso che accompagnava una voce delicata e femminile, prima che le chitarre giungessero come violoncelli trottanti a ricamare le delicatezze di un ritmo rotolante: Yuk.
Quando tirai giù la cornetta, mi mancava quasi il respiro.
La gente in biblioteca parla, scrive, bisbiglia, s’innamora, o si tira palline di carta facendo una cerbottana con il corpo vuoto di una penna. Ecco, in quel momento mi sentivo esattamente il corpo vuoto di una penna. La mia mente volò verso Marrakech, a Djemaa El Fna e ai tassisti di certi ferrabotti. I taxi sono dei rottami degli anni novanta. Li trovi dislocati alle fermate piene di gente con l’occhio pezzo o di mamme ingolfate da sacchetti pieni di roba, e bambini che corrono a destra e a manca per giocare, o per venderti qualcosa.
Chiunque ti propone un prezzo, tu giochi al ribasso.
Salgo su un taxi che mi porta alla prima fermata: Essaouira.
Una telefonata: ti aspettiamo a Ouarzazate. Arriverai in stazione. Fatti lasciare lì e chiedi del ristorante Baden Café. A mezzanotte sarò lì.
Non sapevo neanche come fosse vestito Abdul. Avrebbe dovuto dirmelo. Avrei dovuto chiederglielo.
Giunta a Ouarzazate, mi fermo in stazione. Provo a chiamare Abdul, ma è irraggiungibile.
Baden café? Tratto con i tassisti. 30D, No 20. 25? No 20D o vado dal prossimo. Ok sali.
Baden Café.
Una bettola che mi sembra di essere in uno dei film di quei registi americani tanto amati che copiano gli spaghetti western italiani con un tocco di splatter in più. Rimango basita, spaesata, intontita. Entro nel locale attraverso le porte western, il locale è vuoto. Spunta una donna: Baden Café? Qui di fianco –risponde con l’indice della mano, indicando un luogo e una direzione.
Mi ritrovo davanti a un negozio che ha tutta l’aria di un negozio di vestiti piuttosto che di robe da mangiare. C’è nessuno?
Scendono due ragazzi. Uno di loro avrà più o meno la mia età, l’altro più piccolo, forse sedici anni. Ahmed e Homar. E Abdul? È andato via, sali.
Attraverso montagne di vestiti. Salgo le scale e arriviamo in questa terrazza sulla città. Un cielo tra il blu e il rosso all’orizzonte. Mi adagio su di uno dei tappeti. Homar ha preparato un Tajin di benvenuto. Mentre chiacchieriamo, si sente uno squillo al cellulare di Ahmed e chiudersi il portone di sotto. Dopo pochi secondi entra un omone gigantesco e buffo. Piacere Ibrahim. Si mette a parlare una lingua sconosciuta, un dialetto stretto con Ahmed. Una pacca sul collo di Homar. Si siede goffo vicino a me e comincia a mangiare prima di tutti ridendo e parlando di continuo.
Ahmed: è lui che ti porterà sul deserto.
Ibrahim si gira verso di me, mi fa cenno con il dito giallo di curry e di tajin. Si strofina sulla veste le dita per ripulirsi, tira una mano in tasca e mi da quasi sul viso una specie di sigaretta rollata, goffa come lui e simile a un carciofo. Accendi.
La accendo, boccheggio. Respiro. L’aria è così bella da questo tetto! Mi fa stare bene. Mi adagio sul tappeto e il miagolare dei gatti nei tetti vicini, poco più bassi, mi fa quasi levitare. Mi porta in cielo. Un tappeto di stelle come pochi ne avevo visti finora. Ti sembra di poterle toccare, di poterci camminare. Sostenuta dal tappeto di un organo, sulle scale colorate di questo basso rotondo, miagolano i gatti come una voce soave che echeggia ad ogni angolo di queste strade che ci portano in cielo, camminando sulle stelle, Walkin’on stars.
E’ mattino. Ibrahim bussa alla porta. Dobbiamo andare.
Saliamo su una sorta di mercedes primitivo. Siamo in sette nella stessa auto. Il guidatore, Ibrahim e Homar davanti; io e altri tre dietro. Tutti in direzione sud.
Il guidatore è un uomo sulla cinquantina e guida come se avesse premura di arrivare. Ho caldo. Non c’è neanche il manicotto per tirare giù il finestrino. Chiedo a Ibrahim e dal cruscotto rotto dell’auto tira fuori una maniglietta: quella del finestrino per l’appunto. Ce n’è una per tutti i finestrini. Le altre le hanno fregate ad una ad una i passeggeri. Sulla strada no guard rail. I pneumatici vecchi di quel ferrabotto segnano un ritmo serratissimo sull’asfalto. Ti sembra di stare su di un mare mosso e di pietra. Un synth nudo e crudo sembra venire fuori dalle crepe della terra. Fa a pugni con il ritmo serrato dell’asfalto picchiato dal sole. Il guidatore si ferma. Aspetta un’auto che viene dall’altro senso di marcia. Apre il portabagagli. Esce un uomo, come un synth nuovo. Si scambiano delle carte con il guidatore. Sale alla guida di un’altra auto e riparte il nostro ferrabotto. Il synth spinge ancora di più. Accompagna il ritmo pulsante di quelle strade. Si scorge un paese e un cartello: al di là v’è solo deserto. Siamo a Zagora.
Ci attende un uomo, su di una renault 4 bianca, distrutta e carica di bidoni di benzina. Come ti chiami? Abdullah risponde.
Ibrahim mi rassicura, mi dice che sono in buone mani, che lui mi porterà nel deserto e che Homar verrà con me. Salgo in macchina. Mi danno dell’acqua e si riparte.
Abbandonato il paese, il mondo è avvolto da dune di sabbia, il vento mi solletica la pelle e i miei capelli svolazzano per via dei finestrini aperti. Quell’atmosfera mi nutre lo spirito, mi riempie il cuore. Tutto intorno è sabbia. Ocra e sfumature d’ombra grigia che disegnano sulle dune onde del mare. Waves.
La voce robotica della renault ci lascia di fronte a delle tende di pelle di capra. Accampamenti che sembrano minuscoli paesini dispersi tra le dune. Mi presentano alla famiglia che mi ospiterà in questo oceano di sabbia.
Il vento adesso è alto. La sabbia me la ritrovo dappertutto, anche nelle mutande. Mi accascio, stanca, sul dorso di una duna. Ogni cosa adesso è un ricordo lontano. La mia beata solitudine, in queste dune che sono un non luogo. Al centro del mondo e da nessuna parte. Nowhere.
Cala la sera e il vento sospira al di là delle tende. Uno degli ospiti si avvicina a me chiedendomi se sono in grado di suonare qualcosa. No, ma mi fa piacere ascoltare, rispondo. Arrivano altri due ragazzini, più piccoli di lui. La loro mamma sta cucinando per cena e il loro papà sta versando un po’ tè che ci aprirà l’appetito. Tutti e tre con darbuka e tamburo cominciano a suonare. L’Africa la sento sotto i piedi, in queste percussioni. Un intreccio mantrico. Il vento passa tra le fessure della tenda e i lembi delle fessure emettono dei suoni che sembrano quelli di un sintetizzatore a ritmo con gli strumenti. Quasi sento arrivare un fraseggio di chitarra che allunga lo spazio fisico di questa tenda. Il basso è un cavallo bianco. E penso a quand’ero piccola; i ragazzi abbandonavano i fucili sulle spiagge, nei momenti di tregua, e correvano verso il mare. Salivano sulle tavole da surf e si dimenticavano del mondo e della guerra, di ogni torto e di ogni ragione. Siamo tutti figli dello stesso utero in mare, nutriti dalla medesima placenta, serviti della medesima acqua. Surfin’Gaza.
I suoni degli strumenti e le voci dei ragazzini ci hanno portato a cena. Un tajin del deserto. Un sapore nostrano, leggero e forte nello stesso tempo.
Dopo cena, ancora un altro po’ di tè. Un tè truccato che ci accompagna al sonno. E ora sono qui, su questo letto di paglia e di lana di pecora. Sotto il cielo del deserto, sono qui e ovunque. Sembra una marcia quella del vento, quella degli animali che bisbigliano nella notte illuminata. La luna sembra un pianeta gigante. Potrebbe essere Giove. E il deserto, quell’ovunque e quell’altrove che ci ripara da ogni intemperie. Aspettando che le navi salpino su queste sabbie per portarci in salvo. Questa brezza leggera e umida che sa di rugiada mi è quasi propizia. E rotolano i miei pensieri nel vuoto immensamente pieno di questo deserto. Qui, Dovunque altrove.
Un suono di chitarra mi sveglia al mattino. Sento profumo di tè e di quel pane arabo che mi piace tanto. I ragazzi suonano tamburi e chitarra berbera. Sono felici. È giorno. Fuori è impossibile uscire, ci saranno almeno 50°. Ma Abdullah non è della stessa idea. Accanto a noi, in un’altra tenda, due ragazzi irlandesi, hanno chiesto di essere accompagnati in centro città, a Zagora.
Abdullah mi chiede di tornare. Così i suoi patti con Ibrahim. Una sola notte in tenda. Una sola notte nel deserto.
La chitarra mi mette pace. La melodia solare della voce dei ragazzini canta una strofa leggera; un basso pulsante saltella sui tonf delle percussioni. Stelle rosse segnano i nostri cammini, dicono. E mentre l’aria di maggio viene verso di noi con nuove scarpe, Abdullah prepara la sua auto. Nancy.
Tutti pronti a fare ritorno in città. Due irlandesi nei sedili dietro, insieme a me e alle taniche di benzina rovente. Pazzi! Un uomo nuovo al lato passeggero. Abdullah alla guida.
Homar è fuori dalla macchina che aspetta direttive sul dove prender posto. Così, giunge una indicazione non verbale da parte di Abdullah: Homar, tu sul tetto! Lo sguardo sbigottito di Homar fa scoppiare tutti in una risata drogata. Ha tutto quasi dell’assurdo, ma certe cose qui non lo sono. Homar sale sul tetto della renault e per tutto il tragitto no-guard-rail si tiene ancorato ai due ferri portapacchi sul tetto. Scendendo dal deserto, l’ombra di Homar si proietta al di qua del ciglio della strada, tuffandosi nello strapiombo e ognuno di noi in silenzio osserva; ognuno di noi chiedendosi cosa starà mai pensando Homar sul tetto.
Tornati in città, prendo un nuovo taxi per fare ritorno a Marra’ch. Mi accorgo di avere smarrito i documenti, ma non m’importa. Il taxi adesso è vuoto. Raccoglierà gente per strada e ne lascerà dell’altra. In radio suona una canzone dal ritmo galoppante. Un altro Ibrahim canta alla voce di questo brano. Una canzone che parla ancora di deserto, ancora di acqua come risorsa della vita. E i miei pensieri naufragano ancora, con lo sguardo disperso fuori dal finestrino. I sintetizzatori si sposano con le chitarre che giocano a fare i synth. Il basso disegna un tracciato cardiaco sulla cassa della batteria, un ritmo sinusoidale, in una cavalcata d’auto a centoventi chilometri orari su una strada drittissima, fino al mare di Essaouira. Ahimana.
Giunti al mare ho voglia di fermarmi. Il mio pensiero torna ai surfisti che abbandonano le armi ingolfate dalla sabbia, per virtù del cielo. E il mare quasi mi chiama, con le sue onde gentili. E mi spoglio, nuda, a fior d’acqua, che torna a essere linfa di vita e di ogni cosa, il ventre di mia madre, l’oceano sul quale abbandonarsi in una dolce deriva. Portati da qualsiasi parte. Dovunque e altrove. Adagiati su di una tavola da surf, sulle note di questo sax, sul filo queste voci imponenti, sulle onde di quest’oceano. Atlantico.
Squilla il telefono.
Track by track di Angelo Sicurella.