Alaska inizia scuro, con un violoncello che ci introduce a quella che sarà una passeggiata avventurosa, ma dura. «Scusa»—dice Aimone—«mi lascio andare un po’». È fin troppo palese per non essere una frase diretta (anche) a noi ascoltatori, come a volerci avvisare che quello che segue è frutto di un periodo non semplice, dove lo sfogo la fa da padrona. Per quanto mi riguarda, riporto le scuse ad Aimone perché non le voglio, almeno non fino a quando mi ripagherà con dischi genuini e fighi come Alaska. Avevo lasciato i FASK con Hýbris, sapendo di aver trovato un band unica, ma con del potenziale ancora inespresso. In Alaska si respira un’aria matura (oltre che indubbiamente fredda), si capisce che impegnarsi nel coltivare il successo di quel rischioso e sprezzante disco che è stato Hýbris, ha portato ad una certa consapevolezza dei propri mezzi e del fatto di essere una band che, probabilmente, si rivolgerà ad una grossa fetta di ragazzi italiani infottati di musica formato chitarroni. Nel senso, a livello di audience I Ministri non sono più così lontani ecco. Il senso di insicurezza presente nei testi in Hýbris, in Alaska prosegue e si alimenta ulteriormente grazie, paradossalmente, a delle certezze che prima non esistevano (probabilmente, la certezza che non esiste più una certezza). Però la roba bella dei FASK è che scoprendosi e comunicandoci le loro debolezze, ne escono fuori forti come non mai. È difficile percepire un senso di inadeguatezza o insicurezza nel loro modo raccontare, si tratta piuttosto di una linea diretta con i loro pensieri che vengono urlati a pieni polmoni. Aimone è molto RUOCK in questo, ed è forse proprio questa sua teatralità a rendere la condivisione di faccende intime, così fiera e colma di dignità. Ci sono cuoroni, più che lacrimoni. Dal punto di vista musicale Alaska è un disco più strutturato dei precedenti e mi ha ricordato in alcuni aspetti giusto un paio di gruppi che ultimamente adoro e di cui vi ho raccontato in queste pagine. Alaska è tipo il Home, Like Noplace Is There italiano di quest’anno. Già partendo a confrontare Overture con An Introduction to theAlbum (i primi brani dei rispettivi dischi), pur trovandoi diverse differenze stilistiche—i FASK sono decisamente più RUOCK dei The Hotelier—ho percepito lo stesso mix di rabbia non filtrata, epicità e momenti super-orecchiabili. In Con Chi Pensi di Parlare invece mi hanno ricordato un sacco lo stile alternative-novantiano dei Title Fight (per non parlare delle Enya vibes che si avvertono alla fine dello stesso pezzo). Un momento davvero esaltante è lo stacco di stampo chiaramente BLACK METAL presente a metà di Odio Suonare (circa al minuto 1.33), un pezzo in cui Aimone ci dice quanto ogni tot possa diventare un peso fare anche ciò che si ama, poco prima che il brano esploda in quello che immagino nei live sarà il momento pogo-violenza per eccellenza (non ce ne voglia il cantante dei Joyce Manor). Per dire; Aimone, pur calandosi nei panni di Kekko-dei-Modà (scusa Aimone) in Il Vincente, riesce a mantenere la qualità del brano ad alti livelli, tanto da farmi ridiscutere il fatto che forse i Modà mi piacciono—questa frase verrà cancellata a breve. Se anche dopo questa affermazione non avete ancora capito che I FASK ci hanno appena regalato il loro disco migliore, ve lo dico in stampatello: CORRETE A COMPRARLO.