di Giulia Matteagi
Immagino me stessa in una barca sul fiume con i cieli di marmellata , mentre provo a raccontarvi la caleidoscopica produzione di uno di quelli che hanno deciso di liberare la propria arte a Berlino, meta essenziale per chi ama scandagliare gli esperimenti contemporanei, tanto in architettura quanto nella musica. May Nam è lì che vive, alle spalle la provincia vicentina, la nebbia densissima, la cameretta, il liceo e le solite cose che lascia chi sceglie di andarsene; e da lì, dopo una manciata di tracce reperibili sul tubo, arriva in forma autoprodotta Albatrost.
Sono quattro i brani che narrano il ciclo vitale dell’albatros tra ritmi tribali destrutturati ed echi di esperienze percettive psych, spaziando dalle armonie strumentali di Animal Collective ai virtuosismi scellerati dei synth dell’ultimo µ-Ziq. Vagando nel sedimentato territorio ambient si viene trasportati in una struttura musicale fatta di sonorità libere e irregolari in cui May Nam si diverte a rompere gli schemi ritmici degli universi stilistici a cui attinge, ed è come se costruisse un’architettura organica in totale sintonia con la natura che lo ha ispirato.
I suoni di Albatrost prendono vita dagli opposti, sono terreni e celestiali, mondani e trascendenti; compiono i cicli vitali di alba e tramonto, di nascita e morte, e la nenia che celebra la solenne cerimonia di annunciazione alla vita (Where My Eichy Floats), interrotta dalle voci captate in volo (Acro Pollej), torna litania funebre evocativa del volo finale (Ikuarin W).
Piace l’esordio corto di un manipolatore di suoni che ha realizzato un prodotto esigente, studiato, non convenzionale e mai sequenziale, relegando il software ad autentico mezzo costruttivo piuttosto che creativo; guardiamo con fiducia alle prossime costruzioni perché abbiamo trovato un artista di considerevole intelletto e sensibilità, pronto a dimostrarci che si possono fare cose difficili molto molto bene.