Have Mercy – A Place Of Our Own (Hopless Records)
Nel primo episodio di #CHITARRONI (che ancora non si chiamava CHITARRONI) vi avevo menzionato—tra mille altri gruppi—gli Have Mercy, catalogandoli come “band emo/indie con un piglio pop-sdolcinato a cui resistere è davvero difficile”. Gli Have Mercy sono un quartetto di Baltimore, MD e A Place Of Our Own è il loro secondo disco, (mi rifiuto di dire sophomore, smettetela subito di usare la parola sophomore, grazie) il primo dopo il passaggio da Topshelf a Hopless Records. La definizione usata per il precedente disco, pare ancora valida, anzi forse calza ancora di più. Gli HM si vanno sempre più comodamente ad inserirsi in quella nicchia di band tipo Balance & Composure, Basement, Turnover che dopo una partenza nettamente emo-punk/hc, stanno sempre più scivolando verso del sano alternative rock che si porta dietro delle solide basi ’90 ma che mantiene, però, una voce valida di essere ascoltata anche nei ’10. A Place Of Our Own è ancora più accessibile, ancora più rock, ancora più intimo. Di emo resta l’intensità con cui gli Have Mercy ci consegnano un brano dopo l’altro, soprattutto nella forma del cantante/chitarrista Brian Swindle. La voce di Brian è qualcosa di abbastanza incredibile, dato che riesce ad essere pacata e nasale—mi ricorda un po’ quella del cantante dei Turnover—e all’improvviso ruvida come un la punta di un trapano arrugginito. Sembra proprio che Brian sia incapace di alzare il tono senza innescare questa specie di scream-cantato, una roba che per un gruppo che sta chiaramente tendendo ad una sempre maggiore orecchiabilità potrebbe risultare un ostacolo, invece è proprio ciò che riesce a distinguerli e a renderli decisamente poco scontati. In un’intervista Brian spiega come il disco sia stato composto appena dopo la rottura di una lunga relazione e svariati mesi on the road per concerti e probabilmente è proprio grazie a questo che ci troviamo davanti ad un disco così sdolcinato, amaro, rabbioso e intenso.
Helen Earth Band – We Fucking Quit (Youth Conspiracy)
La chicca di oggi è il secondo disco degli Helen Earth Band, gruppo che da 5 elementi si è ridimensionato a 3—da qui il gioco di facce nella copertina e, credo, l’ironico titolo. Perdere due elementi non è cosa facile, soprattutto se si decide di non rimpiazzarli e se il tipo di musica che si esegue è tutto fuorché semplice e lineare. Invece gli HEB riescono a comporre canzoni pressoché prive di difetti, riuscendo a intrattenere l’ascoltatore per tutto il disco, dosando sapientemente intricati riff math con melodie iper orecchiabili e ricordabili—l’esempio lampante è la stupenda Copy Mechanisms. Questo grazie all’enorme lavoro delle chitarre e della sezione ritmica che si completano ed intrecciano senza alcuna foga, bensì seguendo una ragionata struttura che però, all’ascoltatore, risulta decisamente poco fredda e calcolata. Probabilmente ciò che facilita la digestione dell’architettura compositiva è la voce del cantante Adam Allen, che si trova in piene frequenze Bob Nanna (voce dei Braid) e che disegna orecchiabili melodie che distolgono parzialmente dall’intricato lavoro strumentale. Discone.
Knuckle Puck – While I Stay Secluded (Bad Timing Records)
Non conoscevo i Knuckle Puck, ho incrociato il loro ultimo EP un po’ per caso e quando sono capitato sulla loro pagina Facebook e ho visto una roba tipo “35k Mi Piace”, mi sono convinto di essermi perso una band storica del genere. Invece ho poi capito che i KP sono giovanissimi, hanno all’attivo solo tre EP (compreso questo) e si sono guadagnati un’enorme fan base in pochissimo tempo. Questo principalmente grazie al loro mix perfetto e davvero esplosivo di pop e punk—fate conto una versione più melodica dei Title Fight. Vi avviso, non accade nulla di rivoluzionario tra i brani di While I Stay Secluded, semplicemente canzoni punk con una notevole produzione, suonate con aggressività e linee melodiche super pop. Sono dei pezzi con un notevole tiro e molto piacevoli da ascoltare, ma aspettiamo con ansia un LP per vedere come questi cinque ragazzi—si spera—matureranno le loro composizioni.
Gates – Bloom & Breath (Pure Noise Records)
Se si pensa al fatto che Bloom & Breath è un debutto, ci rimaniamo quasi male. Almeno, io, da ex musicista, mi rendo conto che ho fatto bene a smettere di pensare alla musica come una cosa più grande di una passione. I Gates sono perfetti, probabilmente troppo perfetti. Tutto in Bloom & Breath è preciso e bello, esteticamente glorioso e stupendo; se volete un esempio prendete il singolo Not My Blood: intro con chitarre ambient/post-rock limpide e definite, voce pacata emo-pop e poi le stesse chitarre che esplodono in una tormenta di riverberi, delay e sfuriate shoeagaze. Tutto il disco è un alternarsi di momenti pop super dolci a deflagrazioni post rock e forse il problema, l’unico problema, è proprio quello. La natura post-rock rende il disco troppo simile… a se stesso. Ogni pezzo sussegue come una lieve deformazione del precedente e questo amplifica il senso di confusione e ne consegue che, anche dopo aver ascoltato il disco un buon quantitativo di volte, i pezzi che ti ricordi restano davvero pochi (uno su tutti appunto Not My Blood). Bloom & Breath è un impressionante debutto, che però soffre di autoreferenzialismo. Ma sarete voi a giudicare per voi stessi. #anarchia
Puddle Splasher – Poor Planning (Black Numbers)
EP di debutto con pochissime pretese che però mi sono trovato ad ascoltare sempre di più negli ultimi giorni, sarà per il mastering affidato a Will Yip, sarà per la voce indie-scazzato del cantante. Per ora trattatelo come un b-side dei Title Fight, poi vedremo di cosa saranno capaci questi tre imberbi giovani del New Jersey.
Ruggine – Iceberg (V4V-Records/Canalese Noise/Sangue Dischi/Escape From Today/Vollmer Industries)
Due bassi e una chitarra e più o meno tutto ciò che c’è di buono del pesume underground italiano da 15 anni a questa parte. I Ruggine sono una band piemontese, di Narzole, che ha all’attivo due LP in 4 anni. Si muovono lenti anche in Iceberg, quasi a tentare di slegare una matassa infinita, tra ritmiche math che ricordano subito Shellac e Tool e quel grezzume dell’hardcore vero e nostrano. Lo spoken-word del cantante è a mio parere più simile a quello dei compatrioti piemontesi Uochi Toki (si lo so è strano, ma è vero) che a quello di Clemente dei Massimo Volume. Già dopo il primo ascolto vi renderete conto della grandezza di questo disco. W L’ITALIA.