foto di Virginia De Siro
Non dev’essere stato semplice riuscire a fare tutto quello che ha fatto Chet Faker, in soli tre anni, dev’essere stato, anzi, incredibilmente complicato.
A volte tendi a dimenticare che prima del 2011, prima di quella cover, nessuno conosceva Chet Faker, nessuno si curava troppo di lui. Neanche il suo padre “businessman”, figuriamoci noi. Poi le cose cambiano, Youtube diventa l’animale mediatico che conosciamo, Facebook ancora peggio, e Chet Faker diventa Chet Faker. Dopo solo tre anni, Nicholas Murphy sta tenendo uno show tutto esaurito a Milano, l’indomani si esibirà a Torino e qualche settimana fa ha fatto registrare due sold out nelle due date newyorkesi.
Ti accorgi di essere davanti a un vero talento quando lo senti suonare la prima nota, prendere il tempo picchiettandosi le dita sull’addome, ripetere, con fare da quartiere “ehy Milano, what’s up?”, osservare attonito una distesa di persone che cantano all’unisono le sue canzoni, quelle che forse mai avresti pensato di far sentire a qualcuno. Chet Faker viene tutto da lì, \dalla sincera emozione della sua voce nel ringraziare il pubblico, dal modo in cui si lancia in un discorso del tipo “save the indie” in comunione con il “se sono dove sono è solo merito vostro“. È tutto bello perché riesci a convincerti della veridicità della cosa. Non saprei neanche spiegare bene il perché, ma Chet Faker non stava mentendo.
A dire il vero non lo fa mai, non mente neanche a se stesso.
Chet Faker l’altra sera a Le Fabrique ha tenuto un concerto spettacolare, un’esibizione di musica, suonata da un musicista. Interattivo con chi aveva pagato il biglietto, si è esibito con il vero piacere di farlo. Mai una singola traccia rifatta uguale all’album version, ma un modo di reinterpretare i pezzi molto particolare, che ha reso il concerto molto più elettronico, strumentale, e dinamico di quello che ci aspettava.
È ovvio che durante i cantati il livello sia salito, così come è palese che ci sia più risposta del pubblico verso “Gold”, “Drop The Game” e “Talk Is Cheap”, e l’attesa per i “cult” ti dà realmente la dimensione dell’artista. “Talk Is Cheap“, eseguita in versione piano/voce, è stata accompagnata da circa 3000 anime. E chi non cantava è perché non conosceva Faker, ma è capitato lì per caso (si, c’erano anche quelli). Abbiamo scoperto la traccia preferita dell’australiano, che mi ha portato a pensare che no, non produci qualcosa di circa 8 minuti se non ci tieni particolarmente. “The next song is my favourite, it relly meaning a lot for me, is Cigarette & Loneliness”.
E non ci stiamo raccontando di uno show tutto emozioni e casualità. Ogni cosa era al suo posto, programmata nei minimi dettagli da Nick. Così quell’encore delle due tracce di maggior successo, così come l’esecuzione di “No Diggity” (che è praticamente un’altra canzone) e l’omissione di “Melt”, che forse avrebbe risentito troppo della non-presenza di Kilo Kish. Quello che ha fatto Chet Faker l’altra sera, è stato mettere in discussione le preferenze che giocoforza si creano in ognuno di noi, all’ascolto di un album. È riuscito a riscrivere tutto, ha portato “To Me” nel cuore di chi vi scrive, consegnandomi la consapevolezza (a me, come a tutti) che assistere ad un live di Chet Faker è un qualcosa che va al di là della singola esperienza in sé.
Se c’è qualcosa che deve passare al di là dello schermo, in questo report, vorrei che fosse questo.
Chi se ne importa se l’acustica, nella seconda metà del floor, non era perfetta, c’ha pensato Chet Faker ad equalizzare il tutto. Senza sforzi, senza compromessi. Essendo semplicemente quello a cui, tre anni fa, nessuno avrebbe dato una lira.