Il nuovo disco di Clark, suo settimo in studio via Warp, è un’album che ti prende sin da subito, merito anche della facilità con cui l’artista inglese è in grado di “shakerare” alla perfezione gli spasmi techno del miglior Aphex Twin con le digressioni ambient tanto care ai signori Autechre. È un disco dove i synth la fanno da padrone, talvolta sotto forma di overture come accade in Winter Linn, per poi mutare in un vortice techno distorto ed acido senza fine. Altre in cui, invece, sembrano costruire veri e propri tappeti sonori che avvolgono l’ascoltatore e lo catapultano in un’altra dimensione, eterea ed avvolgente, come nella conclusiva Everlane forse tra i momenti migliori dell’album.
È un lavoro fatto di luci e buio, capace di sospingere l’ascoltatore sia in un’atmosfera da club, come nella nevrotica Banjo, dove riecheggia il mai dimenticato LFO, grazie al suo andamento incessante e frenetico, altre il cui invece a farla da padrone è un clima di stasi e malinconia, come in Snowbird dove un glockenspiel delicatissimo e mai ingombrante fa da cornice ad una voce sibillina ed ansiosa, in un continuo alternarsi di angoscia e beatitudine.
Così ecco che con Clark l’artista realizza il fratello maggiore di quell’Empty The Bones Of You, datato 2003, assimilando e racchiudendo al suo interno quanto realizzato dal musicista inglese nel corso delle sue produzioni, e funziona come una riaffermazione della sua identità artistica, ossia musica intelligente che mette in cortocircuito il corpo e la mente.