Abbiamo ascoltato le 17 tracce di pom pom mentre Ariel Rosenberg Pink era impegnato a dissare il mondo intero.
Siamo saliti su una giostra, di quelle coi cavalli lucidi e finti, e per sessantanove minuti abbiamo dimenticato tutte le altre che erano al luna park, facendo milioni di giri in cerchio. pom pom è un carrousel tutto colorato che ti fa girare la testa perché ti confonde con le luci calde e una lucida plastica rosa. E quindi mentre sei un ingenuo bambino che ascolta la favola del mondo incantato capisci che quell’arcobaleno di maialini (“Plastic Raincoats In The Pig Parade”) è il paradiso dei doppi sensi. Mister Pink scalda la voce come un narratore di fiabe sonore, registrate su musicassetta, con fare impreciso ma studiato nei dettagli, anche quelli più giocosi.
Se così non fosse ci sembrerebbe di girare forte in tondo, avremmo l’emicrania. E invece, pom pom è una giostra di suoni eterogenei, sapientemente accostati. Così si passa dalla new-wave di “White Freckles” al temerario prog di “Four Shadows” al glam di “Lipstick” e le prime tracce scorrono come un’eterna fanciullezza. Poi le luci si fanno più scure (“Not Enough Violence”) e Pink consegna il suo animo decadente a “One Summer Night” prima di saltare sulla giostra western di “Nude Beach a G-Go”.
pom pom ha i chitarroni voluttuosi di “Sexual Athletics” che tirano la corda ai carillon, ma anche le chitarrine indie in jangle pop di “Put Your Number in My Phone” , o la sigla di un cartone animato anni 80 (“Jell-O”) e i synth che danzano con l’avvenente “Black Ballerina”. Filastrocche che rima su rima firmano il primo grande atto di Ariel Pink, senza Haunted Graffiti.
pom pom è il paese dei balocchi che guardi con occhio adulto e le mani impiastricciate dallo zucchero filato.
Qui guardi il suo ultimo video, “Picture Me Gone”