Quando mi ritrovo dinanzi ad un nuovo disco di Dean Blunt provo sempre un senso di smarrimento e stupore, se non altro perché non sai mai cosa possa venir fuori dall’ascolto dell’album, e devo dire che anche stavolta l’artista londinese mi ha nuovamente spiazzato, mettendo su un vero e proprio disco folk.
Detto così Black Metal potrebbe suonare come un qualcosa che rimanda a camicie flanellate e caminetti in bella vista, ma non è così, perché nella musica dell’ex Hype Williams c’è dell’altro, merito anche della volontà del nostro di volersi mettere costantemente in gioco mischiando le carte in tavola e dando vita a qualcosa di variopinto ed enigmatico.
Sì, perché le tredici tracce che compongono il disco suonano come delle vere e proprie ninne nanne strazianti e perverse, permeate da un disagio persistente e rimarcato da un sax acido e quasi maltrattato come in X, nove minuti di malessere esistenziale senza fine. Ma in Black Metal c’è anche dell’altro, qualcosa di nascosto, che si destreggia nel buio delle sue canzoni, quell’elemento x che si chiama pop, talvolta chiaro ed evidente, come nell’introduttiva Lush, mentre altre volte viene dilaniato da scorie noise, dub acerbo e dalla voce gelida e tagliente del nostro, come succede in Punk e Country.
Poi si passa alla seconda metà del disco, ed anche qui le sorprese non finiscono, come in Hush, in cui Blunt ci catapulta nella sua visione di hip hop distorto e de-strutturato, delineando atmosfere nebulose ed urbane, fino alla conclusiva Grade, forse vero apice del disco, che racchiude tutto il Blunt pensiero: una ballad notturna, rimarcata da un sax cupo e pungente, quasi a voler giustificare il colore nero della sua copertina.
Il merito dell’artista è soprattutto quello d’aver modernizzato un genere, ossia il folk, che fin troppe volte suona obsoleto e fine a se stesso, traducendolo in un senso di incompletezza e confusione, che dopotutto, fa parte della vita di tutti noi.