foto di Alise Blandini
“Surfin’ Gaza” è l’ottimo debutto degli Omosumo, creatura palermitana una e trina composta da Angelo Sicurella, Roberto Cammarata e Antonio Di Martino (sì, proprio quel DiMartino). Dopo l’EP d’esordio “Ci proveremo a non farci del male” e un lavoro di remix, l’approdo naturale all’opera prima ha rappresentato un ulteriore sviluppo qualitativo per un progetto così audace e onnivoro. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con la band per approfondirne questioni stilistiche e concettuali.
“Surfin’ Gaza” è il vostro esordio su long-playing. Quali le differenze e quale il percorso rispetto all’EP di debutto?
Sono percorsi differenti, dettati da esigenze diverse. L’ep ha una volontà più ossessiva, più sfrontata e diretta, meno riflessiva. Il disco viene fuori invece da ragionamenti e incontri diversi. Il viaggio in Marocco e la scelta di volerci avvicinare musicalmente ad altri poli, puntando più a sud che a nord ha già in seno una riflessione sulla direzione (quasi inconsapevolmente, dacché le prime cose che vennero fuori sapevano un po’ di deserto e di Africa. Li ci siamo resi conto che un po’ di roba ce l’eravamo portata dietro). E poi anche sui testi, abbiamo pensato che non volevamo ricondurre tutto ad un unico denominatore linguistico e fonetico, motivo per cui nel disco coesistono italiano, inglese e arabo.
Nel disco si incontrano stili diversi di brano in brano (varie forme di elettronica, pop, etno/folk, jazz), ma il risultato finale è un’opera omogenea e armoniosa nel suo dispiegarsi. Come avete agito nello stilare la tracklist?
Tra la scrittura e le pre-produzioni e le registrazioni c’è stato quasi un flusso continuo. Per cui, fino al momento di mettere definitivamente nero su bianco, le cose erano in continua evoluzione. Motivo per cui probabilmente il disco viene fuori con un suono amalgamato nonostante si possa avere la percezione di punte all’interno dei brani che toccano stili e generi diversi. Invero, anche qui io preferirei parlare di esigenza e di sentimento. In “Dovunque altrove”, ad esempio, sentivamo un sax libero su un ritmo ossessivo e gliel’abbiamo messo. Idem per il sax di “Atlantico”, sentire i suoni del sax che si danno il cambio con un synth che sembra venire dal sottosuolo ci sembrava un’immagine bella, particolare, che ha a che vedere con l’alba e col tramonto. Alla fine un disco, sia che si parli di testi, sia che si parli di suoni, vive di immagini.
Pur avendo anime mutevoli e sintetizzando influenze musicali di diverso (e sempre ottimo) gusto, la durata dei brani supera raramente i 4 minuti. È una scelta precisa?
Non ci siamo curati molto della durata dei brani. Così come non ci siamo curati tanto della forma che stavamo dando ai brani. Un brano non deve necessariamente durare 3’14” o andare oltre ai 5’. Penso che se ritieni di aver detto ciò che volevi dire in quella struttura e in quella forma, è inutile prevedere necessariamente una apertura in più o un ritornello in più solo per necessità di spazi da riempire o perché l’accademia prevede che si faccia a quel modo. Tutti i pittori avrebbero le mani legate, noi musicisti saremmo degli animali addomesticati che lavorano alla fabbrica delle strutture musicali tout court.
Il riferimento alla questione palestinese è evidente sin dal titolo. So che determinante in tal senso è stata la visione del documentario “God Went Surfing With The Devil”. Come ne siete venuti a conoscenza e quali sono state le vostre prime suggestioni a riguardo?
In realtà più che di visione del documentario direi che tutto è nato da: “Sai che c’è un documentario che parla di israeliani e palestinesi che fanno surf insieme nelle spiagge di Gaza?” da lì è partita una ricerca, neanche ossessiva, per capirne di più. Ma le immagini cominciavano a venire su da sole, già a partire da quella domanda. Parlare di questa cosa qui e dell’abbandono, delle guerre e della ricerca dell’altrove, dell’abbandonarsi alle correnti del mare -senza necessità di dover sapere prima la destinazione- e della riconoscenza del mare come luogo sicuro, le acque di un ventre materno gigantesco che riaccoglie i propri figli, un porto franco naturale che non ha a nulla a che vedere con le sovrastrutture sociali della religione e delle politiche territoriali ed economiche mondiali.
Del disco colpisce il trilinguismo (inglese, italiano, arabo). In che modo scegliete di quale lingua avvalervi? L’impressione è che le linee vocali siano sempre devote alle esigenze della musica, a mo’ di strumento aggiunto.
È proprio così, molto spesso lo sono. E spesso abbiamo cestinato bozze di testi o bozze di melodie fin quando non abbiamo scelto in questo senso di essere liberi servi del desiderio musicale.
Antonio, le tue linee di basso ora si impongono per incisività, ora sembrano ricalcare in chiave personale la lezione del dub. In un pezzo multiforme come “Atlantico” ciò appare evidente. Come si sviluppa il tuo lavoro compositivo su uno strumento così centrale nell’economia del vostro suono?
Mi piace vedere il basso come uno strumento cantante,nei pezzi di surf in Gaza mi sono divertito a sperimentare diverse soluzioni melodiche. Nel caso di Atlantico ho suonato quella linea di basso su un loop di batteria di Angelo, non ci siamo fatti tanti problemi se quel riff suonasse dub o rock ci piaceva come inizio di un brano.
Quanto delle vostre altre creature musicali c’è negli Omosumo e in cosa invece pensate ci sia totale diversità?
Io personalmente ho avuto un percorso che è andato dal blues, all’hardblues alla improvvisazione radicale, concentrandomi quasi esclusivamente sul mio strumento: la voce. Progressivamente e parallelamente, mi passavano sottomano i primi programmini di drum machine e synth virtuali, che a poco a poco andavo rimpiazzando con manopole vere. Penso che le direzioni di tutti e tre gli Omosumo abbiano fatto corpo unico anche abbandonando parte di quello che avevano già esplorato per dedicarsi a qualcosa di nuovo, compreso l’approccio all’elettronica suonata, fondendo i suoni delle corde a quelli delle macchine. A volte arricchendo quello che già si è riusciti a indagare inserendolo diversamente in un contesto quale quello descritto. È difficile mettersi totalmente da parte, fondersi è la cosa più naturale, oltre che la più bella, poiché in ogni cosa poi riconosci un pezzo di te che è parte del quadro e mai la totalità. È romantico.
Sicilia e Gaza, un comune denominatore: il Mediterraneo. Pensate che l’aggettivo “mediterraneo” (intenso nel senso più profondo del termine) possa ben definire il vostro progetto artistico?
Non saprei dirti quale sarà la direzione del prossimo disco, di conseguenza non saprei dirti se si possa o meno parlare di progetto mediterraneo. Mi piace ad ogni modo l’idea dell’appartenenza al mare. In questo senso il progetto, portato sempre e comunque da onde che ti portano ovunque e altrove, potendo potenzialmente avere sempre direzioni diverse, potrebbe anche avere il nome di un mare, anche se, nel caso del Mediterraneo è come parlare del centro della terra. E non oseremmo mai tale presunzione.