“Qui e ora” è il passo successivo alla presa di coscienza di se stessi, all’“Ergo sum”.
È per questo che a più di un anno di distanza da quelle otto canzoni squisitamente pop lanciate da Foolica Records, Paletti prende l’indie e lo porta al cospetto della signora Sugar. E lei non è che lo mercifica come ci si aspetterebbe, anzi: lo prende così com’è, nel suo scatto di maturità senza condizionamenti.
Anticipato alla fine del 2014 dal singolo “Valeriana e marijuana” , “Qui e ora” si mette sulla strada di quell'”odio perdere tempo” e dell’intenzione di voler fare di un disco, il ritratto di un cambiamento. Pietro Paletti costruisce un intelligente sentiero nel percorso a ostacoli del bosco indipendente, che gli evita di cadere nelle trappole facili tese all’uomo che si accosta al cantautorato italiano. O, almeno, in parte.
Un merito va senza dubbio a Matteo Cantaluppi che, anche in questo lavoro (così come per Fuoricampo, ad esempio), mette su una produzione artistica di altissimo livello, oltre che una ricerca di suoni raffinata, sapiente e innamorata degli anni Ottanta.
Questo sound fatto di tastierine e synth si lascia sentire già dalle prime tracce, dalla title track che introduce all’eccitazione del cambiamento e si snoda subito dopo quell’intro di pianoforte con le doppie voci e suoni eterei. “Barabba” mi ricorda i Devo, i Devo che incontrano Renato Zero. “Avere te” disegna un ritratto ironico di condizioni sentimentali che non sono solo di Paletti, di certo. E noi ci stringiamo su quella coralità, sulla disperazione dei punti interrogativi che si ripetono austeri su beat danzerecci.
Questa prima parte del disco si spezza su “My Darling”, ballata per inguaribili romantici che è tutta un gongolare di qua e di là con la testa e le braccia mentre aspetti che lei, dall’altro lato di una dancefloor illuminata dal mappamondo di specchietti, finalmente, si accorga di te. Siamo nelle viscere dell’album, nel “qui e ora” che accade nell’esclusività di Paletti, “Nel suono del silenzio” che è dipendenza al suono del sintetizzatore.
Prima parlavo di trappole e delle acrobazie mortali di Paletti per evitarle. Da qui alla fine del disco, un po’ il piede in fallo lo mette. Ma la superficie diventa sdrucciolevole e Battisti è sempre lì che ti tende la mano e non ti fa cadere. E Paletti non cade perché nell’altra mano continua a stringersi alle ispirazioni, ai suoni arditi che ha trovato a Berlino. E questa è la sua “Certezza”.
A questo punto la clessidra ci ricorda che il tempo è quasi tutto dall’altra parte del bulbo di vetro e la sabbia finissima ha uno scorrere lento e nostalgico sugli ultimi spunti elettronici della bilingue “Get Me High”.
Paletti qui saluta. Noi continuiamo a ballare come Battiato in “Centro di gravità permanente”.