Spataffione sul disco dell’anno (in ritardo) e più in generale su quale sia il modo giusto di approcciare un disco, in modo da concludere bene il 2014 e riprendere con voi un 2015 costellato di #CHITARRONI.
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Ricordo benissimo la prima volta che ho ascoltato un brano in cui il cantante, invece di cantare, emetteva urla rabbiose ed incomprensibili. Era un disco degli ISIS, precisamente Oceanic. La mia prima reazione è stata—“Che figata la parte strumentale! Che merda il cantante!”—e così la seconda e pure la terza, fino a quando Oceanic è diventato tipo il mio album preferito di sempre.
Accettare e comprendere la scelta di una voce che, al posto di cantare e spiegarsi tramite parole facilmente intellegibili, si rende inaccessibile perché decide di comunicare attraverso scream o growl, non è una processo immediato. Ma quando si assimila il fatto che growl e scream—e le loro infinite modificazioni—non sono urla a casaccio e si cerca così di comprendere che quella è una scelta, esattamente come è una scelta il fatto di utilizzare quel riff di chitarra o quell’altro tempo nell’intro, allora si è sulla giusta strada per apprezzare—o meno—quella stessa scelta.
Verso la fine del 2014 i Pianos Becomes The Teeth hanno cacciato fuori il loro terzo disco Keep You che è anche diventato il mio disco dell’anno (scorso). Non mi succede molte volte di fare così fatica ad assimilare un disco, tra l’altro, apparentemente, decisamente facile da digerire. Cioè, posso capire trascorrere settimane cercando di decifrare l’ultimo mattone di Toby Driver, piuttosto che cercare di capire il confine tra arte e rottura di cazzo nell’ultima collaborazione di Stephen O’Malley, ma qui si tratta di un disco davvero apparentemente privo di architetture da smembrare e decifrare. Chiariamoci subito: appena ho ascoltato i primi pezzi mi sono ANNOIATO A MORTE. Probabilmente anche a causa del fatto che in quel momento ero in ultra fotta con l’ultimo dei Joyce Manor; tipo il disco punk più schietto, diretto e cantabile del 2014.
Ma torniamo ai PBBT, una band che ha da subito centrato a pieno i canoni screamo e quindi tecnica, sfuriate improvvise, ed emotività fornita dalle urla del cantante Kyle Durfey e che, dopo il debutto Old Pride, ci presenta nel 2011 The Lack Long After, un disco più maturo del precedente, ma con i piedi ancora ben saldi al confine tra screamo e post-rock. Viene da tutti comunque considerato un grande passo avanti per la band, soprattutto per come vengono comunicate nel disco emotività, rabbia e depressione. TLLA—ho scoperto in seconda analisi—è sostanzialmente l’eruzione dei sentimenti che Durfey ha accumulato durante la recente e precoce scomparsa del papà ed è un disco che fa della sua forza l’empatia che riesce a causare nei confronti di noi ascoltatori, un po’ come la causerebbe una qualsiasi persona che ti spiega che soffre perché ha appena perso il caposaldo della sua esistenza.
È il 2011 e i PBTT si sono dunque affermati come uno dei gruppi screamo migliori della scena, ciò confermato anche dal fatto che TLLA sia uscito su Topshelf, etichetta a noi molto molto cara. Poi verso metà del 2014 i nostri 5 giovani annunciano di aver siglato con Epitaph il loro nuovo disco e subito dopo fanno uscire il primo singolo, creando un vero e proprio mindfuck un po’ a chiunque li avesse già ascoltati almeno una volta in passato. Repine è il singolo scelto ma potrebbe essere stato uno qualsiasi dei pezzi di Keep You. Fatto sta che non ci sono urla, non ci sono sfuriate, non ci sono controtempi. Niente. Tutto è molto lineare e a prima linea abbastanza scontato. Soprattutto non si può credere che la voce calma e pacata che si sta ascoltando, possa appartenere allo stesso Kyle Durfey che solitamente sbraita emotività dura e pura.
Insomma, un gruppo che si trova all’apice della propria ghetto-credibilità decide di mandare un po’ tutto a fanculo e cambiare rotta. Uno potrebbe subito pensare ad una certa convenienza in termini di guadagno di pubblico più ampio—ricordiamo che Keep You esce su Epitaph—o comunque un tentativo di emergere e distinguersi dal mare infinito di band screamo che sono un po’ tutte uguali, diciamolo. Io non ho pensato nessuna delle due cose, più che altro ho trovato il disco semplicemente noioso ed ho quindi deciso di archiviare tutto nel buco nero che è il desktop del mio computer.
Poi qualcosa è cambiato. Ho letto un sacco di pareri discordanti su questo disco e tra quelli negativi, tutti più o meno muovevano accuse simili a quelle che mi ero fino a quel momento proiettato in mente: noioso, manca di spunti, monotono ecc…. C’era però tutta una schiera di gente rispettabile che sostanzialmente lo poneva sull’altare dei migliori dischi dell’anno. Dunque ho pensato—chissà se un sacco di gente si è rincoglionita o forse è il caso di dare una seconda chance a Keep You. Ho scelto di interessarmi alla storia che racconta il disco, al background degli interpreti, scoprendo appunto che il padre di Kyle è morto al tempo di TLLA e che aveva iniziato a stare male dal loro disco di debutto e che molto probabilmente i tre dischi attraversano tre fasi distinte dell’animo di Kyle. Ora è tutto più facile da capire, prima sconcerto e incredulità (1), poi dolore e rabbia (2), poi riflessione ed accettazione (3). Con queste nozioni in mente, riprendo il disco e capisco come quello che avevo interpretato come noia è in realtà appunto la matassa densa e scura della riflessione, dell’accettazione di un periodo duro. Il cantato monocorde di Kyle assume dunque subito un carattere quasi cantautorale e subito brillano due nomi da accostarci: Tim Buckley e Matt Berninger dei The National. SRSLY. Non solo il carattere monotono della voce acquista ricchezza, sotto questa nuova luce. Anche gli strumenti subiscono la stessa sorte, ridotti a ciò che è davvero importante. La complessità della costruzione non è più palese, evidente, si nasconde sotto mille strati di riflessione ed accettazione. Però c’è (grazie anche alla notevole produzione a cura di Will Yip). Basta sentire il bellissimo lavoro del batterista, abituato solitamente a rullate e cambi di tempo clamorosi, all’inizio di Old Jaw: il tempo è regolare ma alterato dagli accenti di charleston-rullante-cassa che si alternano, creando un’architettura che non ti aggredisce ma c’è, eccome se c’è. Tutto è talmente autocosciente e misurato che quando capita di sentire che il volume sale e che Kyle quasi quasi torna ad urlare (ad esempio, proprio nel finale di Old Jaw: “You’re aboooooout what you’re aboooooout what you’re abooooooooout / and so ooon, and so ooon, and so ooooon….”) si accusa il colpo ancora più di quando le canzoni dei PBBT erano sfoghi ed emotività pura.
Paradossalmente, capire le urla in Oceanic è stato più facile che comprendere le parole in Keep You.
Tutto però si riduce ad una domanda: “È giusto forzarsi a riprendere un disco che non ci è piaciuto, cercando di andare oltre al disco stesso? Oppure un’opera in quanto tale dovrebbe fornirci di tutti gli strumenti possibili per riuscire a comprenderla?” (Ok erano due). Secondo me dipende. Dipende più che altro dall’autore, è una sua scelta. È per questo che chi ha valutato Keep You come disco noioso, alla fine non ha torto. Ma forse si è perso il suo disco dell’anno perché non gli ha concesso il tempo che gli spetta. E allora non posso non scrivere tutto questo spataffione e sperare che le mie parole vi possano far riconsiderare l’ascolto di Keep You. E se non l’avete ancora ascoltato, fatelo ed armatevi di pazienza. Dedicategli il tempo di cui ha bisogno, magari ne varrà la pena.