Maturare 15 anni, con il tempo che è cadenzato dal cadere lento delle gocce d’acqua, che affilano la lama di una spada samurai (Hattori Hanzo, ça va sans dire). Abbandonare il territorio alieno dove ai tempi di Cold Vein si osservava un mondo post apocalittico, come lo era New York appena dopo l’11 settembre. Recuperare sembianze umane e liberarsi da un bozzolo forse troppo opprimente, per quanto rassicurante, come solo la presenza in cabina di regia di El-P poteva essere.
I 15 anni di esilio non forzato dei Cannibal Ox sono serviti prima di questo ritorno ad affinare un lungo processo di maturazione percepibile sin dalle prime note/barre di questo nuovo lavoro. Il duo saluta El-P, e di conseguenza le venature indie e space minimaliste, il suono sporco e infettato di virus alieno, e H.R. Giger per produrre un album di classic rap nel senso più musicale del concetto. Blade Of the Ronin certamente non sta a ovest, ma nemmeno troppo a est e si piazza in quel contesto in cui marcano e hanno marcato Psycho Realm e Dj Muggs (i primi due capitoli di Soul Assassins); strizza l’occhio al secondo lavoro dei Moob Deep e deride davvero l’ultimo obnubilante lavoro di RZA e soci: il Kung Fu attrae ancora ma è disciplina di studio e calma. Non funzionano invece certe “suocerate” sugli 88 anni di produzione per un album sentite negli ultimi giorni, ed è strano anche solo dover leggere certe cose da un nome come il Wu Tang.
Liricalmente la spada del samurai si muove poco distante dai soliti cliché autoreferenziali e canonici del rap – del resto siamo a New York e non stiamo certo parlando dei The Roots – aggiungendo però un certo tono di sarcasmo umoristico e spirito di coscienza, in una scrittura autobiografica e concentrica rispetto al blocco da cui il duo proviene. Trovano posto spinte motivazionali, attacchi anti-bullismo, invettive contro le nuove Kardashian (la rima sulle giovincelle che assomigliano a Frankenstein per quanto finte e costruite è da urlo, oltre che tremendamente vera) e una forte critica a chi affronta percorsi di varia natura religiosa solo per moda posistica, più che per reale fede. Non mancano i dissing contro avversari di strada immaginari e spiccano gli I am like incentrati su fumetti, attualità e rap biz, il tutto nella solita decostruzione linguistica già sentita al tempo del primo album.
Insomma, 15 anni di attesa non sprecati ma spesi bene, che dimostrano quanto a volte sia meglio un silenzio dorato più che un parlare confusionario a saturare l’aria, sfornando album solo per la music industry, perché seppure non vi sia niente di estremamente nuovo nelle metriche dell’album, si avverte un occhio più puntato sulla realtà e uno sguardo più adulto verso il futuro prossimo.
Non c’è nulla di epocale in questo lavoro, sia chiaro (a quello probabilmente penserà Lamar) di cui è bastata già la copertina per far capire che aria tirerà, ma il ritorno del duo della Big Apple, insieme al monumentale lavoro di D’angelo uscito solo pochi mesi fa, ci restituisce una Black America più matura e coscienziosa e forse libera finalmente da pipette di crack e bling bling. Tutto ciò spaventa e sicuramente intimorisce questo stato democratico, che si forgia di una parità razziale solo apparente, a partire dalla sua presidenza che poco dice e poco fa sotto questo aspetto. E si offre come scudo a teaser, pistole spianate, aggressioni su gente disarmata di chi sta sempre più reagendo a questo timore di parità con rabbia e violenza gratuita, a Ferguson come a Los Angeles, come a New York. La musica, con questo rap, sono un’occasione che va raccolta e sfruttata: il rap ha finalmente la possibilità di essere di nuovo, esattamente come trent’anni fa, vettore di contro-cultura e strumento di crescita intellettuale, e questa volta non va lacerato nell’auto-esaltazione in cui per troppi, troppi anni ha navigato compiaciuto e ci si è crogiolato.
Per cui bene così se i 15 dollari di Blade Of Ronin verranno spesi in un negozio di dischi di Harlem, piuttosto che in una casa di spaccio o un negozio di bigiotteria. Molto bene.