Per coprire il tragitto che va da casa mia in università, ci si impiegano circa 15 minuti. Compreso il tempo necessario perché l’ascensore arrivi al settimo piano e ti porti giù. Aprire la cantina bici, salutare le portiera, e uscire.
Spesso quindi, mi ritrovo a rallentare. Chi ha davvero voglia di arrivarci a lezione e, viceversa, chi ha davvero voglia di tornare a casa? Inoltre, 30 minuti complessivi sono pochini per ascoltare un disco, che è la cosa che faccio quando vado in bici. Quindi rallento, cerco di stare attento alle parole che ascolto in cuffia, mi rilasso, e penso tanto, ma mai all’università.
Martedì sera ho scaricato illegalmente il nuovo disco di Ghostpoet, ripromettendomi di cominciare poi mercoledì a scrivere questa rubrica, che, per pura onestà intellettuale, deve la sua genesi a progetti simili come Il Progetto del mio amico Davide e Lo Spogliatoio dell’UU.
Uso la bici solo quando non piove, il che, qui a Milano, capita molto più spesso di quello che possiate pensare. Il clima per andare in bici è perfetto, e in più mi sono anche concesso una colazione al bar leggendo il giornale. Roba da ricchi borghesi di sinistra.
Dagli ultimi lavori di Obaro Ejimiwe non mi aspettavo qualcosa che con il sole c’andasse troppo d’accordo. E in parte direi d’averci preso.
Ma la terza traccia (ho barato, ascoltando le prime due la sera precedente), “Be Right Back, Moving House”, mi ha sorpreso.
Si è sposata perfettamente con la rotonda di Piazza Agrippa, dove mi piace sfrecciare nonostante i vari stop. Sembrava quasi una colonna sonora. Nel ritornello Ghostpoet dice (verbo non casuale) “I’m sitting over here, looking for the answer”. Ho pensato a quanto questa cosa sia vera per me, che sono stato escluso per una svista burocratica dalla “corsa” all’erasmus. Credo sia bello oltre che essenziale che ognuno trovi un suo significato ad una traccia, che faccia inclinare il bus che sta aspettando, parafrasando Mecna. Se un disco fosse pura autoreferenzialità, che senso avrebbe in fondo? In questo Ghostpoet eccelle. Potrà magari non entusiasmare, essere considerato stucchevole, ma il suo modo di stare sulla traccia ti permette di riflettere. È come se qualcuno ti leggesse un libro, fatto di tanti mini-racconti. Mi piacerebbe che il libro che ho comprato, senza aver il tempo di leggerlo, di ritorno dall’università (“Americani” di JJ Sullivan), qualcuno me lo leggesse in cuffia.
Che genere è Ghostpoet? Deve il suo relativo successo solo all’in-classificabilità di quello che fa? Alla fine è probabile, forse perché siamo così assuefatti dalla musica, da pensare che anche un pezzo come “Yes, I Helped Your Pack” possa rappresentare una scossa, e che sì, una cosa è bella solo per essere nuova, inteso nel senso di innovativa. Il disco ha delle brutture, parti che mi hanno angosciato come mi angoscia l’ultima parte del tragitto Casa-UNI. Che poi è la prima del ritorno. Quella sensazione che hai quando il viaggio sta per finire, ma non lo è ancora. Come gli ultimi giorni di vacanza, che diventano un’agonia per chi, come me, in fondo non riesce a godersi la vita. È stata la stessa sensazione che mi ha dato l’ascolto delle tracce 7-8 (due delle quattro senza featuring, campanello d’allarme). Avrei quasi voluto buttar via le cuffiette e chiamare mia madre, che in questi giorni combatte con l’orticaria. Che non è una di quelle cose tremende, ma tanto noiosa, a maggior ragione quando non va via.
Durante questo ritorno però sono contento, perché lo scorso week end ho sistemato per bene la mia stanza, con una pianta, un cestino in vimini, un quadretto di DRITTE e uno con delle ciambelle, così che ogni volta che lo guardo penso a J Dilla. J Dilla invece che ne penserebbe di Ghostpoet? Magari bene, magari nulla, anche perché se Ghostpoet in questo album prende qualcosa a prestito dall’hip hop, lo fa da quello nuovo, come credo dimostri la traccia numero 6. Sono riuscito a finire il disco, che è tutto sommato breve, ma ben riuscito, benché non straordinario.
E sono riuscito a tornare a casa con il sole, dopo poche ore di lezione. Non mi piace più l’università, ora che si avvicina alla fine, quindi rientrare a casa con il sole mi da la piacevole sensazione di essere ancora al liceo, anche se con 3 coinquilini e una lavatrice da metter su.