Il graffio del vinile. Il campione di voce sale, fino ad inneggiare all’orgoglio nero con ardore: “every nigger is a star…” ripete Boris Gardiner, cantante jamaicano che nel 1974 tentava di sovvertire l’accezione della parola con la ‘N’. Meno di un minuto oltre, il sample viene strozzato all’improvviso. Il beat ipnotico di Flying Lotus sembra inseguire un cyber-gangster e ha la complessità adatta all’intricato esordio di Kendrick; il fedele e virtuoso basso di Thundercat introduce George Clinton, icona dei Parliament e dei Funkadelic, suggerito quasi per scherzo da FlyLo durante la registrazione. L’intro di Wesley’s Theory funge da avvertimento: la leggenda del funk sviluppa solennemente la metafora costitutiva dell’album, dubitando dell’integrità di un artista uscito dal bozzolo di Compton, CA. Ritornello e prima strofa illustrano gli stereotipi a cui Kendrick tenta di resistere, spesso invano, da quando le speranze pompose di Backseat Freestyle sono così tanto più vicine. Tra gli altri, nel pezzo compare Dr Dre, che al telefono ricorda al pupillo quanto sia complicato galleggiare nella white America. Nella seconda, ironica, strofa è la nazione bianca e bigotta a intimare al rapper di pensare meno, acquistare più oggetti lussuosi e urlare cliché. Senza dimenticare che lo sceriffo delle tasse è sempre in agguato sull’intera comunità afroamericana, lì nella bianchissima Casa Bianca che K-Dot minaccia di conquistare.
In For Free? una ragazza parla e sparla contro Kendrick, ricreando l’inversa psicologia di Tramp di Otis Redding. “This dick ain’t free”, risponde regolarmente lui, in un monologo di poesia-spoken word con immagini notevolmente più efficaci rispetto all’analogo motto in Buy The World di Mike Will. L’MC prende le difese di ogni singolo bruco della civiltà nera, rivendicando taciuti emendamenti e allitterando la d per sottolineare il disgusto verso la donna, rappresentante la corruzione di Stati, media ed etichette discografiche. Voce femminile che qui, nel rarefatto clima jazz, fa la figura di una moderna Millie Jackson.
Terrace Martin si occupa della produzione, assistito dalle dita di Robert Glasper, pianista jazz e sperimentatore R&B che vanta una nomination ai Grammy e collaboratori esaltanti. Tra questi Bilal, eroe neo-soul dei primi ’00 che in TPAB ritrova la temeraria spontaneità della pietra miliare 1st Born Second.
Mettersi in discussione è il modo più rischioso, ma fondamentalmente valido, per provare di essere più in alto: alla fine dell’interlude la nemica insinua che Kenny non sia affatto un re, ma King Kunta la pensa diversamente.
La forza antitetica della terza traccia è innegabile, vivida sia nel cavalcante sample di una perla underground di Mausberg (Get Nekkid, 2000) accompagnato da un basso che reincarna The Chronic, sia nell’ossimoro alla radice del testo. K si identifica nello storico schiavo Kunta Kinte, simbolo della ribellione anti-schiavismo, definito paradossalmente monarca. Chiunque vuole tagliare le gambe al rapper proprio come a Kunta, ma lui sta già correndo da un pezzo e nessuno gli toglierà più le patate dolci (“yams”) che ha guadagnato negli anni. Si citano con energia gli stessi Parliament e Michael Jackson, e il denso mixaggio di MixedByAli ricorda proprio un moderno Quincy Jones. Sounwave (Bitch Don’t Kill My Vibe, ricordate?) dimostra sapienza nella produzione, precisa e sui generis.
Sempre lui e Terrace Martin sono responsabili di These Walls, brano dal groove decisamente pop. Bilal si occupa di ritornelli e bridge con Anna Wise, la voce di Real che ritorna in diverse tracce.
I muri rappresentano barriere di ogni sorta: spazi fisici nel rapporto sessuale tra Kendrick e una ragazza, consolata con serena fiducia nella prima strofa. Dubbi e deviazioni della seconda strofa rappresentano l’omertà dell’uomo ricco rispetto alla realtà del ghetto, che il rapper non ha intenzione di tacere. L’amante si scopre essere la fidanzata dell’uomo di cui raccontava Sing About Me, ora in carcere a vita per aver ucciso un “fratello” di K-Dot. L’irresistibile vendetta è condita dall’ingiustizia che si respira nelle prigioni americane: lì i muri parlano, la pietà è un business poco conveniente.
Incontrollabile è l’impulso per il guadagno, dove denaro e violenza sembrano quasi sinonimi. Istitutionalized spiega il legame eterno tra Kendrick e il ghetto, una sorta di incoerente purgatorio plasmato dai potenti per eliminare le ‘minoranze’.
Dopo una menzione ad Afrika Bambaataa via Taz Arnold (stravagante musicista e designer, che qui mette mano su una manciata di brani), la prima parte è un’invettiva contro la cinica industria musicale. La seconda strofa è narrata dalla prospettiva di un amico, proiettato in un simbolico evento (BET Awards, diciamo) e necessariamente portato a scippare catene alle celebrità, solo a causa della profonda struttura gerarchica della realtà. Tra i due punti di vista se ne inseriscono altri due: Bilal è la nonna che consiglia a Kendrick di ripulirsi e lavorare per ogni sogno; Snoop Dogg, compaesano di K e ovvia ispirazione, cita proprio i Last Poets per rassegnarsi all’impossibile emancipazione dalla vita di quartiere.
Il punto emozionalmente più provante dell’album intero è u, pezzo diviso in due parti da un inserviente che interrompe il delirio di depressione di Kendrick allo specchio, in albergo. La coscienza lo rincorre, prima con rabbia feroce, poi con rimpianto palpabile e il cuore frantumato. Il primo beat è opera oscura e tesa di Sounwave, impreziosita dal sax di Kamasi Washington, 34enne affiliato a Brainfeeder che prima di incontrare FlyLo condivideva spartiti con Herbie Hancock e Wayne Shorter. Altro californiano è Whoarei, sconosciuto ai non-archeologi di Soundcloud, ma stimato ben più del sospettabile, che dà vita ad una base distesa, con uno slancio underground che deve a Dilla e Madlib come a Stevie e Marvin. Kendrick annega indecisioni e auto-compassione in Hennessey e ghiaccio, lancia le parole con la sincerità di chi riconosce il sapore della tristezza ed è costretto ad accoglierla (vedi Heart pt 3 e His Pain per ulteriore, dolorosa introspezione). Non si perdona per aver videochiamato un amico in letto di morte, trascurandolo proprio come il sistema ignora lui. L’idea di popolarità e l’idea di suicidio sono pericolosamente vicine, lo sa.
Il folle tugurio di sentimenti di u è subito contrastato da Alright. Prodotta da Pharrell, il sound positivo è decorato dal variopinto sax di Terrace Martin. Il superproducer non osa, scegliendo uno snare dell’808 tipico di qualsiasi low-budget-mixtape e senza variare drasticamente il beat.
Kendrick dipinge le diverse situazioni in cui ci si rivolge alla divinità, sdrammatizzando la diseguaglianza sociale che lo tiene intrappolato in una strettoia, circondato dalle tentazioni. Il diavolo gli porge armi e scorciatoie buie, ma almeno per ora lui sente di poter addomesticare il cane a tre teste di Lucy (Lucifero). Il demonio è unico autore di For Sale?, titolo contrapposto al primo interlude. Il motivo umilmente psichedelico di Taz Arnold è circondato da sax, tastiere e voci fuori campo, mentre Kendrick descrive l’inevitabile rovescio della medaglia conseguente al successo planetario.
È Lucy a parlare nel frenetico outro di Momma, preceduto da un cosciente elenco di insegnamenti che Lamar può diffondere al suo ritorno a Compton. Lui sa tutto e tutto gli manca. La nostalgia è percepibile nei suoni sensibili di Knxwledge, compagno di MPC di Whoarei e prolifico beatmaker di LA (guarda caso), che qui campiona Lalah Hathaway per partorire una base più regolare del solito.
Il sample più apparentemente inconsueto dell’album dà forma a Hood Politics. Tae Beast campiona Sufjan Stevens per creare un’atmosfera surreale, come se Lucy fosse davvero l’allucinogeno che fece volare i Beatles. Il pezzo punta a rendere ridicolo ogni genere di politica, dalle regole del vicinato (“boo boo!”) alle lobby nazionali: gli uomini del governo gettano fango sulle faide tra gang, mentre dividere comunità intere si rivela, in più profonda analisi, il loro vero intento.
La ricerca di risposte continua in How Much A Dollar Cost?, che vede K-Dot ignorare un incredulo senzatetto alla stazione di benzina, analizzare il valore di un dollaro da molteplici punti di vista, nuotare nel senso di colpa e scoprire poi di avere di fronte a sé Dio, come segnale ultimo dell’umiltà necessaria per meritare un posto nell’aldilà fiorito. LoveDragon imposta il suo beat su una sequenza di note al piano, senza samples creditati, ma reinterpretando EST e Radiohead. Le ennesime estensioni della coscienza di Kendrick sono qui recitate dai super-ospiti James Fauntleroy e Ronald Isley. Sensazioni facilmente comprensibili si distribuiscono in ogni strofa, con il tipico climax di tensione e consapevolezza ritrovabile nei primi due album (Kush and Corinthians, Real per fare due esempi), qui sviluppato al meglio in The Blacker The Berry.
Il beat spietato di Boi-1da è aggredito con rabbia da Kendrick, che iniziò a scrivere il testo il giorno dell’ingiusto omicidio di Treyvon Martin, tre anni fa. La figlia del soul Lalah Hathaway introduce il pezzo, Terrace e compagnia chiudono con un insperato minuto di jazz delicatissimo. Le tre strofe hanno struttura simile, e variano insieme all’ira di indignazione del rapper. L’immagine delle comunità che notiziari e pesci grossi vendono alla massa dà luogo a illogici, violenti scontri al loro interno. Lamar si dice ripetutamente ipocrita, e l’ironia lascia spazio al paradosso quando nell’ultimo verso ammette le colpe che condivide con ogni singolo cittadino nero per le incessanti morti precoci. Si unisce alla declamazione Assassin (lo stesso delle urla furiose su I’m In It di Kanye), con la più che appropriata enfasi dello spirito dancehall.
Se The Blacker The Berry traduce il nervoso desiderio di ribellione di Malcolm X, i rispecchia gli ideali propositivi e non violenti di Martin Luther King: i due singoli si muovono nella stessa direzione con approcci differenti.
La versione di i presente nel disco è più genuina della hit filo-radio uscita mesi fa: annunciato come il miglior rapper al mondo, Kendrick si esibisce nelle strade, proprio in mezzo alla gente in cui cerca di infondere speranza. Racconta le sue rosse vicissitudini, fardello irrilevante in u (“trials and tribulations”, semi-citazione di MLK), ora superabili e superate grazie alla fede e ad un irrinunciabile amore per se stesso. Il gioioso sample degli Isley Brothers è interpolato con entusiasmo da Rahki, al mixer anche su Institutionalized.
Luminosa fratellanza e universalità della bellezza traspaiono da Complexion (A Zulu Love), traccia in cui emerge l’unica vera e propria strofa rap di un ospite, la giovane allieva di 9th Wonder e attivista afroamericana che risponde al nome di Rapsody. La prima metà del beat sembra uscire (non a caso) dall’album di Thundercat, la seconda è degna dei Roots. Sulla base di Sounwave e The Antydote, i due rapper ritrovano una già assaporata cooperazione, deprecando discriminazioni etniche in favore dell’amore indiscusso per ogni carnagione, e sognando un James Bond di colore. Il ritornello è ripetuto da Pete Rock, per allungare l’elenco di leggende all’appello.
È un’ode alla sincerità la morbida traccia r&b You Ain’t Gotta Lie, in cui Kendrick mira a zittire i colleghi che si mostrano ingioiellati e ipereccitati macchiando l’immaginario collettivo. Per farlo, seguito da fantasie al vocoder (sfoderato qui e in King Kunta) assume ancora una volta una focalizzazione esterna: canta due strofe con tonalità ispirate a Macy Gray e Outkast (She Lives In My Lap), per ricordare a se stesso e donare agli altri i consigli della madre. Non ha bisogno di mentire per essere apprezzato, e rimembrarlo sul beat di LoveDragon è l’unico modo per liberarsi dall’ipocrisia in cui dai tempi di Section.80 teme di cadere.
Il tema menziona un pezzo di 2Pac, immortale fonte di elevazione artistica e spirituale per il comptoniano.
L’album è scivolato su iTunes una settimana prima della pubblicazione prevista, con susseguente tweet polemico del capo di Top Dawg Ent.
Esattamente vent’anni prima della data del leak usciva Me Against The World, terza (!) fatica di Tupac.
Non è una coincidenza, ne è conferma definitiva la traccia conclusiva di TPAB.
Mortal Man dura in tutto dodici minuti, tra la canzone vera e propria e l’immaginaria intervista tra K e Pac.
La paura di essere dimenticato e il desiderio di reincarnare Nelson Mandela generano versi carichi di diffidenza, pensando ad ogni grande leader tradito al primo passo falso, da Mosè a JFK, passando per Huey Newton e Michael Jackson.
La strumentale dolce e acquosa campiona Fela Kuti e sfuma dopo cinque minuti, isolando la voce. Kendrick recita per intero la poesia progressivamente composta al termine di ogni brano, tracciando il completo itinerario dell’album, al passo con la sua storia tutta. Legge Another Nigga a 2Pac, paragonando il proprio percorso a quello del defunto maestro. Campionando un’intervista di Shakur ad una radio svedese nel 1994, Lamar conversa con lui ipotizzando domande, sciogliendo dubbi, chiedendo delucidazioni e profezie di rivoluzioni come fossero vecchi amici. La connessione tra le due generazioni è commovente, fino al sordo “Pac!” finale senza risposta, fin troppo simile ad uno sparo.
L’arte di Kendrick Lamar assume forme, ritmi e colori differenti per raccontare la sua carriera, intesa come approfondita parabola della sua breve e intensa vita.
In Section.80 diceva di sentirsi al centro di tutto il caos (Ab-Soul’s Interlude, HiiPower), in good kid guardava alle sue esperienze passate dall’esterno.
To Pimp A Butterfly è un racconto di chi è all’interno, stretto tra i muri di fama cosparsi di insicurezze.
È da considerarsi un almanacco della storia nera per argomenti, samples, generi e collaboratori coinvolti, abitudini e tensioni raccontate.
Pac non replicherà mai al racconto del bruco, ma oggi ovunque, chiunque ammira la farfalla più completa e riconoscibile dell’ecosistema hip-hop.
Trasformare un dialogo in spoken word, farlo con il personaggio più controverso di una cultura intera: è tutto indice della profonda natura di questo album tributo alla contraddittoria crudeltà della vita, rappresentata nel punto più emblematico dalle ali di 2Pac spezzate dal sistema.
L’atroce consapevolezza della morte è solo uno dei temi che Kendrick avvolge e travolge con altissima arte. Ascoltare, ascoltare, riascoltare.