Il nuovo lavoro di Scuba sa di benzina con cui alimentare generatori elettrici, di cantine lugubri e capannoni industriali, di luci al neon, di un solo strobo, di una maglietta umbro anni 90 di una squadra britannica e delle air max da combattimento.
L’attitudine al cambiamento, il continuo camouflage (rimanendo comunque con uno stile proprio), a cui Paul Rose ci ha abituato, non sorprende ormai più quasi nessuno: primo album di esordio nella media (A Mutual Antipathy, 2008), che girava nelle atmosfere Warp del tempo, tra dub-techno e IDM non ancora massificata. Secondo album clamoroso (Triangulation, 2010) che finisce nel calderone amalgamatore definito come post-dubstep e in cui si, tra suoni ambient e qualcosa che si, di dubstep aveva, non rinunciava a colpi di cassa dritta qua e là. Poi è arrivato Personality (2012) vera consacrazione: un album pensato per il dancefloor in cui il nostro beniamino, ormai fisso a Berlino da parecchio, giocava tra suoni funky, bass culture, cassa dritta e break 70’s, confezionando un prodotto tanto ballabile nei club quanto ascoltabile in ritmate camminate all’aria aperta . Nel mezzo della discografia a suo nome un Dj Kicks in cui dava dignità e orgoglio al genere tech-house, e un gioiellino in omaggio allo stesso Dj Kicks in cui dimostrava una conoscenza enciclopedica della jungle (Jungle Rinse Out, fondamentale immancabile in ogni collezione che si rispetti). Tre anni sono passati, e chi ha seguito il producer e il trend della sua label Hotflush (partendo da quello schiaffo bellissimo e irriverente che era l’esordio di Sigha) sa bene che la virata verso la techno più spinta e più oscura è stata netta e decisa e i set che ha portato in giro per il mondo ne sono un’ampia conferma: ecco perché Claustrophobia segna un nuovo cambiamento sì, ma che non coglie assolutamente impreparati. La definizione letterale di claustrofobia, che dà il titolo al disco, è qui più concausa che rappresentazione e l’album si propone come cura ad una precisa sintomatologia di chiusura perché, se è vero che la musica che esce dal lavoro stesso è pensata per luoghi chiusi e inospitali, come detto in apertura, la stessa è pura divagazione mentale ad uscire dai gusci con motti di ribellione tanto energetici quanto celebrali.
Per riuscire nel suo intento, Scuba parte da una base fatta di cassa, cassa e poi cassa, quella inconfondibile già sentita in Personality, accelerata dei giusti bpm, e rimescola i suoni della sua libreria. È sublime l’idea di limitarsi a un lungo processo di rielaborazione dei synth già presenti nelle sue produzioni precedenti, a seconda dell’idea di partenza impartita all’album, creando così un vero e proprio marchio di fabbrica che ti porta a esclamare orgoglioso “ah, ma questo è il nuovo Scuba (succede molto bene nel pezzo di chiusura dell album Transience).
Questo suono, questo essere Scuba con tutte le sue influenze le sue contaminazioni, il suo intelletto viene riprosto in chiave rave culture, il disco vive delle accelerazioni pazzesche di quei tempi, di ritmi indiavolati e in continuum cari alla scena 90’s (dico Underworld per fare un nome semplice, ma potrei metterne mille) e di pause (altro marchio di fabbrica), di retromania intellettuale e di carichi di tensione, quella pazza voglia di uscire dalle gabbie mentali a cui forse Claustrophobia fa riferimento.
Fino a qui nulla di troppo sconvolgente vero, anche se davvero la forma, la presentazione, il risultato è impeccabile.
Il surplus arriva al terzo o quarto ascolto quando cominci a scoprire il trucco di questo manipolatore del suono. Una volta definiti i pezzi, e chiarito dove l’album va a parare, si cominciano a scoprire piccole derivazioni, trucchi di magia, colpi d’artista lanciati qua e là, e allora si scopre che quelle che sembrano solo tensioni sci-fi in realtà ricordano tremendamente ben altre tensioni Floydiane provenienti dal lato oscuro della luna (Drift, All I Think About Is Dead) oppure quando ad un nuovo ascolto cerchi dannatamente il singolo, il tormentone che sia apice del tutto e ti accorgi che Pcp ha quel groove indiavolato che riuscirà a mettere d’accordo, finalmente, sia gli stronzi che fanno la fila per non entrare al Berghain, che i nuovi abitanti delle piramidi in vetro dalle parti di Riccione.
È un ottimo lavoro quello di Scuba, certo nulla di seminale né di sconvolgente, ma è materiale solido per buone cuffie, ben confezionato, che vive di due solidi flussi energetici: di botto, a primo impatto, è distrazione, ballo, sudore e fatica e funziona come indiscutibilmente deve funzionare il materiale di questo genere. Ad un ascolto più maturo si rivela un’opera di forte intelletto e costruzione, integratore mentale per i pensieri più liberi di una mente che guarda un cielo con confini non delineati, e macchiato solo dalle prime luci dell’alba. Bene cosi.