Il 16 marzo è uscito “Metropolis”, il quarto disco degli Albedo. Prodotto dalla Massive Arts Records, etichetta nata intorno ai Massive Arts Studios (dove il disco è stato registrato e martirizzato), Metropolis rappresenta la conferma che questo quartetto milanese (composto da Raniero Federico Neri, Gabriele Sainaghi, Luca Padalino e Ruggiero Murray) abbia ormai raggiunto la piena maturità artistica e trovato una propria identità.
Come il precedente, anche questo è un album concettuale: se in Lezioni di anatomia si raccontava il corpo umano, questa volta oggetto dell’esplorazione di Raniero Federico Neri e soci è un’Odissea contemporanea, un allontanamento obbligatorio dalle terre di origine del protagonista, devastate dalla povertà e dalla miseria, verso un grande agglomerato urbano (la metropoli che richiama alla memoria l’omonimo film di Fritz Lang) dove provare a cambiare il proprio destino.
Diversamente dal precedente, per raccontare questo viaggio gli Albedo hanno scelto di puntare su sonorità pop-rock, riducendo al minimo lo spazio per le suggestioni elettroniche che avevano impreziosito LDA. Di questa quarta tappa della loro carriera, soprattutto ci convince la capacità di bilanciare un cantato italiano “classico” con un approccio contemporaneo, alternando canzoni più aggressive che strizzano l’occhio al post-rock e ballatone.
Il risultato è un disco interessante, che forse non spingerà in avanti di un decennio la musica italiana, ma certamente può rappresentare un punto d’arrivo per gli Albedo e un termine di paragone per tutti quelli che restano convinti che anche in Italia possa trovare spazio un pop più impegnato e artisticamente valido.
Per tutti questi motivi abbiamo chiesto ai ragazzi di raccontarcelo.
PARTENZE
L’incipit di un concept come Metropolis aveva il difficile compito di trasportare subito l’ascoltatore altrove nel mondo che noi avevamo in testa. Per questo si apre piano con un suono di atmosfera suonato da una chitarra con delay e POG, per poi trasformarsi in un brano piuttosto d’impatto, quasi post-rock. L’arpeggio di Luca e tutta l’intro dura più di un minuto. Non volevamo sporcare quello che è un viaggio con dei significati testuali. Un po’ come quando ti metti in macchina e quello di fianco comincia subito a parlare a raffica. Fastidiosissimo. Inoltre abbiamo pensato che potesse essere una buon intro anche per i live.
LA PROFEZIA
Ecco,una volta partiti il disco si interrompe bruscamente di nuovo. E’ una sorta di antefatto,il momento in cui il protagonista di Metropolis rammenta la profezia per cui decide di partire (una sorta di doveroso tributo alla tragedia greca in cui le profezie compaiono soventemente). Anche se spezza molto il ritmo del disco,credo che LA PROFEZIA serva davvero a intrappolare chi ascolta e fargli capire che non si trova davanti ad un disco qualsiasi,ma dinnanzi ad una narrazione. O perlomeno questo era l’intento.
ASTRONAUTI
Credo sia il brano migliore del disco e forse uno dei nostri migliori in assoluto. Una sorta di punto di arrivo, stilisticamente. Volevo scrivere un brano molto semplice, che avesse una grande forza emotiva senza arrangiamenti virtuosi, molto pop, sorretta da un testo molto corto ma piuttosto incisivo. D’altronde si pone domande esistenziali di una certa importanza: “siamo solo un caso? o siamo nati per qualcosa di magnifico?” e ci sembrava abbastanza forte così.
METROPOLIS
Sul secondo “stop” al solo quarto brano ci siamo chiesti se effettivamente non fosse un enorme rischio. Una traccia con una parte di chitarra suonata con un effetto a pedale chiamato “cathedral”. A quel punto abbiamo preso la decisione di percorrere la strada del “se piace cosi bene, se no amen”. Tutti i grandi concept non seguono un ordine preciso ma sono solo dei “flussi” che scorrono. Non abbiamo fatto altro che seguire la tradizione di gruppi più fighi di noi, così, per non sbagliare.
TUTTE LE STRADE
Solitamente arriviamo in studio molto preparati, avendo sempre fatto autoproduzioni; questo aiuta a ridurre i tempi in studio del “cosa facciamo qui e come?”. Registriamo tutti i provini e io metto le parti vocali, synth piani ecc. a casa con calma utilizzando l’ipad. In questo caso non avevamo già definito tutto se non suoni, effetti ecc. Questo brano ha delle strofe molto diverse dagli incisi, sia per suoni che per modo. Nell’inciso infatti il protagonista riflette ricordando il suo passato (“una volta da bambino ecc..”) e volevamo staccarlo completamente dalla strofa che “temporalmente” si collocava nel suo presente. La parte ritmica invece è stata fatta direttamente in studio, prima di registrare.
HIGGS
E’ stato uno dei primi pezzi scritti per il disco. Volevamo un brano che avesse un legame con i precedenti lavori e che ascoltandolo si potesse dire “ah, sì gli Albedo”. Il testo non è stato facile da chiudere perché il tutto era nato con questa frase “se l’universo è la risposta qual è la domanda?”, che poi era il titolo appunto del libro che definì la particella scoperta da Higgs, appunto, “la particella di Dio”. Il testo rimase fermo cosi per mesi, senza avere un capo o una coda. Infine ho pensato che potesse essere un ottimo spunto per la dicotomia scienza/religione e una riflessione sulla solitudine dell’uomo in generale.
REPLICANTE
Ascolto sempre con grande piacere un certo tipo di elettronica, ma le mie competenze in materia non mi permettono di sviluppare un intero brano senza i classici strumenti. Replicante è in realtà due brani in uno: la prima parte è nata da un giro di synth su cui si sviluppa tutta la linea vocale fino all’inciso. Una parte molto serrata e “chiusa” armonicamente e ritmicamente, proprio per cercare di dare un idea di automazione, di meccanica, di non umano. L’altra parte inizia invece con un arpeggio morbidissimo di chitarra accordata in quello che è comunemente noto come “DROP D”, che suona più grave e l’intera parte è suonata con un BPM diverso dalla prima, molto più lento e con un testo in cui l’androide si chiede “chi sono io? da dove vengo?”, subendo un processo di umanizzazione. Il brano si apre infine moltissimo a livello armonico quando l’androide, diventato umano, sente qualcosa che per lui è amore. Applausi, sipario chiuso.
I MIEI NEMICI
Sinceramente è l’ultimo brano scritto per il disco. Un brano buttato un po’ così. Sentendo il disco finito mancava infatti un collegamento narrativo alla decisione del protagonista di voler ritornare. Diciamo che si collega a “La profezia” in quanto il protagonista si ritrova a rivivere quanto da essa predetto: una granitica solitudine costruita come un altissimo palazzo (“ma quando guarderai fuori dal tuo centesimo piano… ti sentirai solo”).
QUESTA E’ L’ORA
Per il protagonista il viaggio è quasi al termine e, non avendo più motivi per restare, decide che “Questa è l’ora di partire”. Musicalmente mi dicono che ricordi molto la corrente new wave, io non saprei. Sicuramente c’è qualche cosa degli XX, ma anche dei Depeche Mode che sento più vicini anagraficamente e non solo. La chitarra lead che entra in seconda battuta ha un riverbero molto alto, che la fa sembrare un synth e che “svuota” tutto quando esce. Sui suoni di chitarra ci lavoriamo un sacco in pre-produzione perché devono essere in grado di fornire un immaginario intero, compito ingrato e difficile.
SEI INVERNI
Perché il protagonista decide di tornare? E quanto tempo resta lontano? Ecco, nell’ultimo brano si svela questo. “Sei anni” suonava molto 883 e quindi ho optato per un più poetico “sei inverni”, che fa molto Game of Thrones. “Adesso sì che mi riconosco,ti guardo in faccia e mi riconosco/se questo viaggio è stato lungo è solo perché mi ero perso sulle tue tracce”. Voleva essere un cerchio che si chiude, in cui il protagonista guardando il figlio lasciato e ritrovato capisce se stesso e gli spiega che prima “ho attraversato sei inverni, quelli più lunghi e freddi/per conoscerti ho speso i miei anni migliori in mezzo a foreste oscure”, quindi i momenti bui della vita. Con una sorta di consiglio generazionale tramandato dal padre per cui “l’importanza del viaggio non è solo arrivare”, con cui si chiude l’album.
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