Macerie.
La copertina di Dream A Garden di Jam City è un puro e schietto ammasso di macerie.
Tutto è rosso, però.
Il colore dell’azione, dell’istinto di sopravvivenza, della bruciante passione.
Serve immaginazione per vedere tra le rocce un barlume di energia, un forte fiore che cresce dove nessuno si aspetta o sospetta ci sia vita. Rosso è lo sfondo del video di Unhappy, quando a pieno schermo si succedono due frasi cardine del messaggio insito nel secondo album di Jack Latham: “STOP BEING AFRAID”, “ANOTHER WORLD IS POSSIBLE”.
Nello stesso video, si susseguono in trasparenza primi piani del venticinquenne e infinite immagini pubblicitarie, cariche della misoginia che induce insicurezza e trascina un giovane londinese nel più alienante consumismo.
Significati politicamente pesanti sono avvolti da strati e strati di suono, e il singolo ha l’interna contraddizione di Funeral Party dei Cure, con la stessa gentile corazza di speranza.
Tre anni fa, Classical Curves fu acclamato come un’originalissima simbiosi di varie specie di club music, ma il messaggio sociale giaceva come secondaria, difficile interpretazione: se nel 2012 i suoni ultra-finiti ammettevano il fascino dell’incontaminata omologazione agli standard del mondo moderno, ora Jam City ha una voce, e gli slogan anti-classisti sfiorano anche il grande pubblico, grazie ad una svolta verso strutture pop più prettamente umane. I testi, tuttavia, non sempre sono comprensibili, sotto a spessi reticoli di chitarre effettate (con risultati profondamente diversi dal primo LP), percussioni compresse e ricompresse alla Tessela-maniera, e synth annegati in liquidi metallici.
Il giardino prospera nella prima traccia, sconfiggendo con pensieri estivi mezzo minuto di industrie demolite, e riportando alla mente perle noise-ambient come Replica o Endless Summer.
Good Lads, Bad Lads ha la stessa (de)costruzione di base del primo album, addobbato però da una profonda familiarità con la musica degli ultimi tre anni e molto altro: non solo elettronica, col prepotente avvento dell’instrumental grime in cima (Strict Face e Dark0, per dirne due, nascono eredi di Classical Curves), ma anche indie-pop, basti pensare al trattamento delle chitarre reminiscenti di Mac DeMarco, King Krule, M83, Blood Orange.
Epoche si scontrano, libri si aprono e riaprono: Frankie Knuckles e gli Air sono equamente parte del pacchetto, insieme a tutto l’Aphex Twin che c’è di mezzo. Ma una tale varietà di influenze non appesantisce il prodotto, anzi. È proprio la diversità di termini di paragone ad escludere Jam City (in questo album quanto nel primo, ma in modo differente) da ogni categorizzazione.
Black Friday raggiunge i toni più cupi dell’intero lavoro: kick e bass toccano gli abissi, e un’inspiegabilmente soffice tensione culmina nell’assolo. Una chitarra si specchia e non si riconosce, e il processato soliloquio risulta personale quanto il violoncello di Arthur Russell in Soon-To- Be Innocent Fun. Panning e phasing completano una strumentale in continuo crescendo, che trascende geometrie regolari per improvvisare, resistere.
Quel giorno dell’anno (vedi gli scontri dello scorso novembre in UK) rappresenta al massimo l’idea di individuo come parte senz’anima di una massa, in cui ognuno indossa il nero e nessuno trova del rosso coraggio per scappare dai preconcetti.
Come Unhappy e Damage, il titolo di Crisis suggerisce un fondamento negativo, ma proprio come i primi due, il pezzo è in realtà ottimismo, visto come congiunzione tra rabbia e amore, in un ipotetico corteo dal motto “Love is resistance”.
Il brano più facile, Today, non è facile. Pause feroci e percussioni nevrotiche disorientano la voce, accompagnata da corde filtrate con grazia.
In ogni singola variazione di tono si percepisce la non più innocente fantasia di un “child with a computer”. L’espressione viene a galla nella prima strofa di Today, ed è quanto mai azzeccata la focalizzazione su un oggetto come il pc: fondamentale e paradossale simbolo dell’era senza spazio in cui viviamo, è motore di ogni cosa, anche della rivoluzione contro se stesso.
Ora, artisticamente maturo, il londinese idealizza ed eleva l’amore per se stessi, ne è potentemente orgoglioso, e l’eterea Proud chiude il progetto senza batteria, con il basso ad annaffiare la giornata nuvolosa. L’intro del pezzo, inoltre, ricorda la Cherry Coffee di Kelela che aveva consacrato la lungimiranza del producer. Proprio come Kelela, Jam City è sotto Night Slugs, su cui ha pubblicato entrambi gli LP.
Si fa portavoce di ideali freschi in suono e pensiero, convergenti in un positivo manifesto anti-capitalista e anti-militarista. La riservatezza dei testi, spesso solo subliminalmente captabili, e l’accessibilità della gamma sonora adattano l’album ai pubblici più vasti, pur facendo storcere il naso a chi sperava in vetri rotti e sensazioni tutto-nulla.
Nessuna strada è ignorata, l’itinerario non preclude alcuna destinazione.
Si intravedono spiagge sporche, con scorciatoie che riconducono sempre alla metropolitana.
La bass music spinge da sotto le macerie, e Jam City devia il percorso senza andarsene: aggiunge la voce al repertorio, ed evolvendosi perpetuamente, rende difficile una previsione su possibili direzioni future.
Il meta-sound di Jack Latham non è un fiore semplice, ma è vivo di profumi nuovissimi.
Nove tracce in nemmeno quaranta minuti rappresentano, o perlomeno immaginano, il lieto fine di una rivoluzione: i muri cadono, per lasciare a spazio a tende di seta. Il colore lo sapete già.