a F.,
per ogni paura, pianto e perdita
Il lutto
Perdere una persona cara, abituarsi all’assenza, sopportare il dolore. Farsi forza, riporre la propria fede nell’amore, nella Natura, nel miracolo della vita. Il lavoro del lutto, così come lo definisce Freud nel suo “Lutto e Melancolia”, prevede un processo di simbolizzazione e introiezione dell’esperienza negativa. Questo lavoro comporta memoria, dolore e tempo. Dimenticare appare impossibile, pertanto siamo costretti a ricordare, rivivere, raccogliere tracce della presenza perduta attingendo a piene mani dal passato.
L’elaborazione della perdita secondo Sufjan Stevens si chiama Carrie&Lowell. Carrie, come la madre mancata nel 2012, quella stessa madre (problematica al limite della schizofrenia) che aveva abbandonato Suf e i suoi fratelli a Detroit per poi ricomparire nella loro vita qualche anno dopo risposata con Lowell, originario dell’Oregon. Ed è proprio in Oregon che il lavoro del lutto conduce il nostro Sufjan riportando a galla i ricordi legati all’infanzia e alle vacanze estive trascorse con la madre e il compagno – uniche memorie di un’apparente normalità famigliare.
L’opera
Mettiamo le mani avanti. Affrontare un disco come Carrie&Lowell non è cosa da poco. Molti, forse troppi, i livelli di interpretazione da considerare: in prima battuta il sottotesto che emerge dalla memoria e che produce una miriade di immagini del tutto personali e intime; la sua rielaborazione narrativa che sfocia in uno storytelling dal tono mitologico; l’utilizzo di metafore e riferimenti religiosi e storici; la collocazione dell’album all’interno dell’opera sufjaniana; non ultimo lo stile musicale.
La complessità del disco rivela una coesione impressionante che lo rende un amalgama perfetto e una pietra angolare della discografia di Sufjan Stevens: è grazie al lavoro della memoria dietro Carrie&Lowell che riusciamo a comprendere i riferimenti e le storie disseminate nei dischi precedenti. E questo lo rende un capolavoro talmente stratificato da necessitare un approccio letterario.
Non solo: siamo di fronte a un’opera intima e devastante il cui ascolto appare come un’invasione di campo. Una messa a nudo completa che annulla ogni distanza, a partire dagli arrangiamenti dimessi delle canzoni. I pezzi, in effetti, sono acquerelli resi vividi dalle liriche e godono di strutture armoniche semplici e dirette (chitarre, banjo, piano, qualche coro, un organo elettronico e degli accenni di percussioni a creare un’atmosfera circonfusa da un alone sacro) ma al tempo stesso straordinariamente efficaci ed intense. Nessun orchestra, nessun crescendo, nessun travestimento: Carrie&Lowell suona come una messa in Super-8 cerimoniata da Sufjan stesso.
Componendo Carrie&Lowell, Sufjan scrive il suo personale Vangelo: concentra in sé reportage storico (nulla di diverso dall’operazione narrativa degli apostoli Matteo, Giovanni, Marco e Luca che raccontano, ricordando, la vita e l’opera di Gesù), spirito critico e profonde confessioni – di fede, di vita, di amore. Ogni canzone (o forse dovremmo dire ogni ricordo) assume quindi un’aurea sacra simile alla parabola, alla favola simbolica – al mito.
Non stupiamoci se tra una decina di anni Sufjan sarà inserito in un’antologia di letteratura americana e qualche PhD vorrà dedicare un libro ad una delle migliori menti musicali e poetiche della nostra generazione.
Le canzoni
Abbiamo parlato di coesione. Le canzoni di Carrie and Lowell sono da considerare come un corpus, tanti frammenti di un unico discorso (amoroso e di fede) alimentato dalla memoria. Come in un gioco di specchi, i testi delle canzoni si richiamano in modo ricorrente, tutto questo a confermare una precisa dichiarazione di intenti e un’unità stilistica e di contenuto.
A costellare la narrazione, frequenti rimandi e riferimenti a elementi geografici, storici e appartenenti alla rigogliosa natura dell’Oregon: flora e fauna controbilanciano quelle ombre (shade) e la pulsione autodistruttiva (blood), stagliandosi nettamente a protezione di Sufjan, richiamandolo all’ordine nei momenti di perdita – termine inteso come lutto ma anche come smarrimento personale di Sufjan. E’ il miracolo della vita (un fiore, un uccello che vola, la purezza dell’albero di pero, la nascita della nipote) che porta luce (illumination) nelle tenebre della mente di Sufjan.
Prendiamo I should have known better, ad esempio: il senso di profondo rimpianto di fronte alla morte della madre si trasforma in ciò che Freud definisce melanconia. Sufjan è letteralmente schiacciato dall’ombra (shade) del passato in modo adesivo tanto da diventare quella stessa ombra. Come ha infatti dichiarato in un’intervista a Pitchfork qualche mese fa:
I was so emotionally lost and desperate for what I could no longer pursue in regard to my mother, so I was looking for that in other places. At the time, part of me felt that I was possessed by her spirit and that there were certain destructive behaviors that were manifestations of her possession.
In lieu of her death, I felt a desire to be with her, so I felt like abusing drugs and alcohol and fucking around a lot and becoming reckless and hazardous was my way of being intimate with her.
Come contraltare della melanconia, ecco il lavoro del lutto a ribaltare la canzone a metà del suo corso. L’entrata dei cori, dell’organo e ciò che definirei “palmi delle mani sulle cosce” (uno dei pochi elementi ritmici dell’album) è un momento di rara bellezza in cui le parole non sono altro che futile devices. Ecco la vita che pulsa di nuovo nelle vene, ecco lo spirito che rientra in sé, ecco il raccoglimento. Sufjan, eroe tragico, è spronato dal coro, il cui ruolo non è dissimile da quello greco: questa soluzione stilistica era già stata adottata da Stevens in pezzi passati come Vesuvius (Sufjan, follow your heart/Follow the flame/Or fall on the floor) o ancora Impossible Soul (Don’t be distracted, don’t be distracted […] Hold on, Suf/Hold on, Suf/Hold on, Sufjan).
Ecco il messaggio del coro a Suf: Don’t back down/concentrate on seeing/the breakers in the bar/the neighbor’s greetings/my brother had a daughter/the beauty that she brings/illumination. L’illuminazione, ovvero l’esperienza religiosa dell’amore e del perdono. La canzone si conclude con una coda mistica che è al contempo manifestazione dello Spirito Santo e testimonianza del mistero della fede. E in un attimo la canzone si tramuta in preghiera.
Interessante notare come le code strumentali siano una caratteristica ciclicamente ripetuta all’interno dell’album: cinque, infatti, le canzoni che godono di questi momenti. A volte il loro intervento cambia completamente il tono della canzone (Death with Dignity in positivo, Carrie&Lowell in negativo); in altri pezzi si di tratta di outro dotati di un’intensità vibrante e francamente commovente (Drawn to the Blood e Blue Bucket of Gold).
Il device narrativo della “botta e della risposta” dell’album è riscontrabile anche in 4th of July, più che una canzone, un dialogo toccante, di strofa in strofa, tra la madre morente e il figlio. Lo scambio di battute a cui assistiamo non ha però fondamenti nella memoria di Sufjan: ecco che qui si innesta l’operazione di mitologizzazione tipica del lavoro del lutto che rimodella i ricordi (once the myth has been told, the lens deforms it as lighting, recita proprio la canzone finale) al fine di esprimere un desiderio profondo ma inappagato – in questo caso di amore. Sufjan ambienta il dialogo sul letto di morte e, come nei migliori film hollywoodiani, gira la scena strappacore di un addio carico di insegnamenti (Did you get enough love, my little dove/Why do you cry? […] Make the most of your life, while it is rife/While it is light).
Da notare inoltre l’uso frequente di tanti insetti e animali volatili (swan/dove/meadowlark/hen/owl/tanager/falcon/loon/hawk), quest’ultimi onnipresenti nelle liriche di Stevens: senza dubbio un simbolo cristiano-cattolico (Gesù è spesso rappresentato come un uccello) ma anche una metafora del volo finale (quando si muore, si usa l’espressione “volare via) con una connotazione visuale ben spiccata – nei tour Stevens è solito indossare un paio di ali. Questo elemento, sovrapposto al titolo del brano (4th of July) e all’argomento (la morte della madre) ci riporta a un’impetuosa citazione di Walt Whitman tratta dal canto Madre, tu, con la tua stirpe uguale:
come un possente uccello sulle sue ali libere,/lieto solca gli spazi più eccelsi montando al cielo,/tale il pensiero che di te, America, pensare vorrei,/tale il canto che vorrei offrirti.
Sufjan Stevens, moderno menestrello americano, si siede idealmente accanto a Walt Whitman, cantore dell’America e, al pari di Sufjan, innamorato perso dei punti esclamativi – si pensi solo ad alcuni titoli contenuti in Illinois(e) e alle sferzate tipiche di Leaves of Grass -, miscelatore di toni (dall’euforico al meditativo) e amante di quel body electric che ritroviamo, velatamente o meno, in canzoni come All of me wants all of you e John My Beloved.
Nelle tracce appena citate la componente sensuale e carnale è ben presente e viaggia sullo stesso livello di testi come Casimir Pulanski Day, The Predatory Wasp… e The Owl and The Tanager. Sono queste le liriche più ermetiche e difficili da interpretare: gran parte dei nostri interrogativi trova una risposta nella citazione dell’intervista a Pitchfork riportata precedente, ma è anche vero che l’elemento erotico è intrecciato agli onnipresenti rimandi biblici. Versi come On the sheet I see your horizon/All of me pressed onto you e I’m holding my breath/My tongue on your chest grondano innegabilmente eros da tutti i pori (impossibile non pensare al canto di Whitman dedicato ai nuotatori) e ci restituiscono un’immagine di un Sufjan frastornato che annega il proprio dolore nella perenne ricerca di un corpo (da contrapporre idealmente al ghost e alla shadow of me) e che si definisce come un uomo ridotto a un’ombra, pressoché morto, alimentato solo da un cuore che riesce a ferire a furia di richieste avide.
Sufjan è come un dannato. Si appella alla fede, ma è morbosamente attratto dal dolore e dal sangue (facciamo riferimento ai versi I’m drawn to the blood e There’s blood on that blade che richiamano fortemente l’origine del nome di Sufjan, ossia “colui che viene con una spada”) e da uno stato di perenne euforia (like a champion/get drunk to get laid). Passa da braccia a braccia (Now that I fell into your arms/My only lover e Fuck me/I’m falling apart), iniziando un processo di autodistruzione in cui denuncia l’incapacità di trovare consolazione nella fede (No shade in the shadow of the cross). Ma, come abbiamo visto nel secondo brano I should have known better, la presa di coscienza (dolorosa, necessaria, puntuale) è dietro l’angolo.
Ecco quindi The Only Thing: un’analisi lucida e programmatica dei motivi che non l’hanno portato a impazzire dal dolore ponendo fine alla sua vita. Si parlava prima di punti esclamativi; qui Sufjan menziona le tentazioni “oscure” e argomenta, con tanto di due punti, quali segni l’hanno spinto cambiare idea: lo spettacolo della Natura e della volta celeste, la devozione, la grazia del Signore. E’ proprio quella grazia che l’ha portato a dedicare alla madre versi splendidi e toccanti come I forgive you, mother, I can hear you/And I long to be near you/But every road leads to an end/You’ll never see us again.
Memoria, dolore, tempo, si diceva all’inizio. Ma anche amore, quella forza incondizionata e incomprensibile, cocciuta e cieca che anima i nostri gesti.
Suf, quanto amore hai dentro di te per scrivere un disco così?