Ogni passione può nascere per caso, ogni tipo di innamoramento può scaturire da una scoperta o da una circostanza inaspettata; una piccola scintilla basta a far esplodere la ricerca più ostinata se si ha la fortuna di essere curiosi; si può cominciare, in qualsiasi campo, avvicinandosi alle cose più semplici per poi raggiungere, con lo studio e la dedizione, approcci di livello sempre crescente. Finché si gravita attorno alla confortevole zona dei terreni già più o meno sondati, ci si trova senza dubbio a proprio agio – ma è difficile registrare una forma di evoluzione e di crescita. I traguardi sono sempre lì dove non si è mai stati prima, e credo che il mio primo importante traguardo nel percorso di ascolto della musica elettronica sia rappresentato dai lavori di Thomas Jenkinson, aka Squarepusher.
Si tratta di un artista tutt’altro che semplice, e mi ci è voluto del tempo per apprezzare la sua arte: più di una volta, durante l’ascolto, ho saltato gli inframezzi jazz di Hard Normal Daddy o le schizofrenie di Do You Know Squarepusher? ma ho insistito fino a quando non mi sono chiesta come ci si potesse spingere a una tale esasperazione di genere (su tutti jungle e drum’n bass) e se non fosse proprio questo lo zenit della bass culture; con Ufabulum ho avuto la sensazione che il genio artistico di Jenkinson si fosse incagliato in un groviglio di virtuosismi senza ritorno, e ho aspettato la promo di Damogen Furies interrogandomi su quali nuovi settori cerebrali un artista di tale calibro potesse ancora risvegliare da una possibile inerzia ricettiva.
Con il suo nuovo lavoro Squarepusher sceglie di giocare la sua partita in un campo emozionale decisamente più terreno che sintetico; la sua musica subisce un processo di umanizzazione in cui le macchine si riscoprono corpi emotivi, soggetti all’irrequietezza degli stati d’animo di un software che sperimenta la vita. Il beat hardcore “trascinato” di Stor Eiglass si fonde in un wonky sbarazzino, costruito su una scala armonica salterella che è quasi un inno alla primavera, mentre Kontenjaz sembra la scoperta pirandelliana del minatore che non ha mai visto la luna, e racconta l’incontro tra il buio profondo e l’inaspettata luce notturna: le pulsazioni si fanno veloci e corrono su scale free jazz, perfette per descrivere lo stato d’animo di un cuore ricolmo di entusiasmo che palpita a un ritmo crescente, accompagnato dalla forma ultima di quel liquid effect teorizzato ai tempi di Go Plastic. Lo stesso effetto liquido definisce gli up and down di Exjag Nives ed è quindi spontaneo interpretarlo come elemento seminale del nuovo lavoro; Rustie ne ha creato una versione propria, abbandonata forse con troppa fretta, in Glass Swords e persino gli Orbital ne hanno ripreso la costruzione formale nel loro bellissimo wonky.
Il suono di Squarepusher, seppur umanizzato e forse più accessibile rispetto a molti dei lavori precedenti, non rinuncia ad essere estremo e anfetaminico, fatto di sbalzi d’umore e stati di tensione profondamente cinematografica, come in Baltang Ort, e naviga nell’oscurità verso atmosfere sinistre dove il senso di inquietudine sembra essere quello di chi si aspetta l’arrivo di robot alieni, tanto simili a quelli presenti in Addio Al Padrone di Harry Bates, da cui probabilmente Squarepusher ha tratto un’ ispirazione che va oltre la maschera usata ai tempi di Ufabulum.
Lontana dalla certezza di poter definire questo album un capolavoro, mi sento di affermare decisamente che il processo di umanizzazione messo in atto è riuscito a toccare corde emozionali inaspettate e, se il ragionamento vale, questo è sintomo di un lavoro davvero ben riuscito, perché quando si passa dall’heavy rotation di Coexist di The XX a quella di Damogen Furies, senza rimpianto e senza sforzo, allora non importa che sia un capolavoro: ciò che conta, personalmente, è la capacità di emozionare.