Un uomo che si allontana dal vostro sguardo. C’è la neve, tanta neve, e con sé ha solo un chitarra in spalla. Quello che comunica la copertina di Sopra la Panca è che Capra—nome d’erba di Gabriele Malavasi—ha tirato su ciò che era davvero importante e ha detto “ciao ciao” a noi che rimaniamo qui, dalla sponda delle persone normali.
Capra, infatti, negli ultimi anni ha fatto una scelta radicale che lo ha portato a vivere a vicino a Zocca nel bel mezzo del nulla. Approcciando il disco è chiaro come in quel nulla Capra abbia trovato il suo tutto: c’è una casa, c’è la famiglia, ci sogno gli (altri) animali, c’è l’orto e c’è quel fottutissimo forno a legna che mi costringe a sbavare sulla tastiera del computer, ogni qual volta Capra decide di postare su Facebook la foto della “pizza del mese” appena sfornata.
L’elemento del racconto, della condivisione ad un pubblico, rimane però cosa fondamentale. Non si tratta infatti di una sorta di eremitismo ascetico, quanto più di (scusate la forzatura) un eremitismo punk. Infatti ascoltando il disco ci rendiamo conto di come la musica, il rock e il punk, con tutti i loro tratti caratteristici di divertimento, di comprensibilità del testo, di #CHITARRONI e di voglia di saltare e di suonare dal vivo siano sempre molto evidenti.
Sembra quasi che per Capra la sua musica sia quella corda che unisce la dimensione isolata a quella pubblica, una corda senza cui probabilmente non potrebbero esistere né una né l’altra.
D’altronde, come dice lui stesso in Il lunedì è la domenica del rock: «…tra le altre cose ti parlerei di 12 canzoni che ho poi suonato per 130 volte fino a star meglio senza / ma quell’assenza non lascia in pace, così ritorno qui.»
IL LUNEDÌ È LA DOMENICA DEL ROCK
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Questo è il video di quando avevo l’idea “finita” da ricordarmi:
Andava così: una volta che avevo un’idea minimamente strutturata, registravo un video col telefono. Poi, quando avevo una manciata di video a cazzo, trasformavo casa in un rudimentale studio, con gli ampli a canna al piano di sopra, e pedali al piano di sotto, dove stavo a suonare davanti a computer e ammenicoli audio per prendere le varie takes.[/column]
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Come tutti i pezzi del disco, anche questo è nato nella camera degli ospiti qua a casa, svuotata dai letti e riempita di ampli e pedali. È diviso in 2 – diciamo così – parti melodiche distinte, la prima che va dall’inizio fino allo stacco, e appunto lo stacco. Poi sul finale ritorna la melodia dell’inizio. (Lo stacco, tra l’altro, è la strofa scartata da un altro pezzo che poi non è finito nel disco.) C’è un loop di chitarra che rimane costante in sottofondo (quello che fa iniziare il pezzo) che è venuto fuori a caso mentre scancheravo sugli armonici, su cui poi ho messo il giro di chitarra.
Questo è il provino la cui data di creazione è 19 novembre 2014.
Per registrare ho usato Logic Pro X, che per certe cose ha un interfaccia tipo giochino che non è mirabilmente professionale, ma d’altro canto ha un simulatore di BATTERISTI che mi ha svoltato la vita. Anche se in questo caso, non essendo il pezzo proprio pari (ci sono degli stacchi di 3 battute alla fine di ogni giro di 4 battute), il mio batterista sintetico (che per questo pezzo si chiama Aidan) (sì, puoi scegliere anche il tipo di batterista, il tocco, i piatti che usa, i colpi sul charlie, quanto suda, praticamente tutto, è una gioia nerd indescrivibile) ecco, il caro Aidan non seguiva perfettamente l’andare dei giri e parecchi suoi stacchi sono un po’ a caso. D’altronde lavora gratis, non scazza mai un tempo, e suona ORE senza mai stancarsi, non si può pretendere troppo.
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Tutti i testi sono generalmente arrivati dopo, anche se questa frase che offre il titolo al pezzo, era una di quelle frasi che mi giravano in testa da tempo e che volevo assolutamente ficcare in una canzone. Se si volesse riassumere il perché mi è venuto il prillo di fare un disco, tra le righe de Il lunedì, un paio di risposte ci sono.
Poi il pezzo finito, dopo l’immancabile passaggio con suonatori non sintetici e uno studio vero come l’Igloo Audio Factory, è diventato questo:
GALLINE
Tutto il disco è nato dopo un mese di ascolti garage, dai Mummies agli Oblivians fino a Mikal Cronin, Segall e compagnia bella. Questo perché in testa avevo l’idea di fare un disco garage. Ergo i primi pezzi magari risentono un po’ di più di certi ascolti. Questo, per me, è uno di quelli che ne risente di più. Diciottenni è l’altro. Poi la storia ha preso una piega sua probabilmente, e il garage è andato un po’ a baganana.
Parlare di galline e degli animali di casa che puntualmente scappavano fuori ogni volta che mi mettevo a suonare a volume altissimo era un’altra di quelle cose che volevo cantare. Se si vuole scavalcare il dato esperienziale di convivenza con una dozzina di animali, la frase finale (“Ho scoperto su youtube che una gallina vivrebbe fino a 9 anni”) getta un po’ di luce su questo essere montanari un po’ a caso, e il fatto che ci siano morte circa 14 galline svariati anni prima della loro possibile morte naturale perché praticamente offerte in libagione ai predatori della valle lo dimostra. Montanaro non lo diventi mai, a meno che tu non sia nato in montagna. Il processo di formazione è lento e più che altro porta ad essere sempre meno urbano, ma vero montanaro mai.
DICIOTTENNI
Per la parte musicale vedi sopra.
“Ho già un principio di mal di schiena quando porto l’ampli per le scale” è strettamente legato ai due mesi di gestazione di Sopra la panca, quando buona parte della roba che ho usato per suonare a casa la usavo anche nel tour Johnny Mox w/ Gazebo Penguins, e sballottare avanti e indietro tutti quei chili di ferraglia era una roba che non facevo da anni.
SCALETTA
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Video dell’abbozzo del giro:
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Provino datato 12 novembre:
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Pezzo finito dopo le sessioni in Igloo Audio Factory:
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Fare le tre e svegliarsi presto. Un classico dei due mesi in cui è nato il disco.
Volevo farci tipo un lento ma con un fuzz marcissimo – il pedale Triangle che si vede all’inizio del video del provino è una bomba, e fa della roba incredibile.
E questo ne è uscito.
MARGHERITA DI SAVOIA
È uno dei pezzi che mi gasava di più già nella parte strumentale.
Mi gasava così tanto, che più passavano i giorni più non mi saltava fuori un cantato che fosse pertinente al suonato. Quando oramai il tempo cominciava a scadere (e lo dico perché il disco è nato come una sorta di gara contro il tempo, doveva nascere e uscire dallo studio di registrazione in 60 giorni a partire dal 1° novembre) ho chiesto l’aiuto del pubblico. Nello specifico ho chiesto un’idea a Jacopo, con cui già avevamo collaborato per Senza di te dopo che non ci veniva fuori nulla di degno. Manco a dirlo, in 2 giorni mi manda buona parte del testo e un cantato che mi piaceva a secchiate. Taaac.
PIERRE MENARD
Avevo voglia di una canzone più dilatata, che anche dal vivo potessimo giocarla sui tempi e sulla dinamica e sul deformare il più possibile, più psych se vogliamo metterla così. Ne è venuta fuori Pierre Menard. Non ci volevo un malloppone di testo in questo caso, pochissime parole, qualcosa da reiterare in loop. E così ho preso in prestito un personaggio da Borges e ho provato a farne una canzone d’amore.
LA FINTA NON È LA FINE
Il finale di questo pezzo è tutto uno smacchinare su alcuni pedali che modulano il suono secondo vari parametri (Triangle, Silver Stallion, Sinth Wah) e che sbalinano a seconda della regolazione del volume direttamente dalla chitarra.
È stato l’ultimo testo scritto, ormai agli sgoccioli della scadenza che mi ero dato, e il rimando del testo è proprio a questa approssimazione che spesso ci anima quando si approssima la fine di qualcosa che stai portando avanti da tempo: “Si finisce a far finta di niente, quando si è quasi alla fine”.
MIO PADRE FACEVA IL FABBRO
Diversi anni fa, in un periodo abbastanza stantio della mia vita, mi ero messo a scrivere la storia degli ultimi mesi di vita di mio padre. Prima o poi sarebbe diventata una canzone, cercavo solo la musica più adatta per farlo.
E questa è arrivata in un piovoso e freddo pomeriggio di dicembre, dopo alcune ore trascorse a suonare e risuonare dei loop di chitarra, usando il plettro come slide, sopra al giro che sta sotto a tutta la seconda parte del pezzo.
Il suono di chitarra che è venuto fuori in studio per la prima parte di Mio padre etc è invece il mio preferito di tutto il disco.
MLVGRL
Mi sono domandato: Come sarebbe fare un ritornello con qualcosa di apparentemente anti-musicale per antonomasia, tipo il mio codice fiscale?
RESET
Questa è una delle canzoni che non riuscivo a chiudere. Avevo il giro iniziale, forse uno dei primi venuti fuori, ma non mi veniva una chiusura. Nella mia testa volevo un pezzo che fosse un unico crescendo dall’inizio alla fine. Così ho cominciato a lavorare su tutte le bozze scartate, provando bruttamente ad incollarle alla prima parte, ma non c’era nulla che si attagliasse per bene. Poi ho cambiato approccio, e anziché cercare un crescendo, ho pensato di sottrarre, di fare una brusca virata, e alla fine ho trovato quell’equilibrio che cercavo grazie a un giro di chitarra che, nella mia testa, doveva sembrare qualcosa dei Fugazi. Tutta la scaletta del disco è la scaletta dei pezzi che, cronologicamente, venivano man mano spuntati come “conclusi” nella cartella del computer sotto al nome Sopra la panca. Questo è stato l’ultimo.
E come ultimo pezzo volevo parlare di mia figlia Ester. Raccontare qualcosa che proiettasse la riflessione sul futuro, ma che non si staccasse troppo dalla canzone: pensare a cosa potrà pensare lei ascoltando una canzone che la riguarda. Sul finale, nei cori, ci è finita pure Agnese, la mamma, e la cosa, nel suo complesso, con tutti questi addendi, suona talmente antirock che quasi lo diventa al 101% per contrappasso dantesco.