Quando ho sentito la prima volta Franklin’s Room di Jordan Rakei la cosa che mi è più rimasta impressa è stata la copertina, quell’acquarello di una stanzetta un po’ sfigata. Anzi, da una parte mi è venuta in mente la sfiga e quella brutta storia del DIY, dove nella maggior parte dei casi il yourself è l’ascoltatore finale, più che un il modo in cui viene realizzata la musica.
In realtà Jordan mi ha spiegato che fin da bambino è cresciuto circondato dagli strumenti musicali: “Sono felice di non aver mai sofferto l’eccesso di stimoli da questo punto di vista. Casa mia era piena di chitarre e tastiere, ma non mi sono mai sentito insofferente, è stato un percorso graduale, in cui mettermi a fare musica è stato l’esito più naturale”.
A diciassette anni, dopo aver finito la scuola (ciao mondo!) ha deciso che non era fatto per diventare un avvocato e i moduli di immatricolazione all’università gli sembravano una prospettiva poco convincente. “Ci ho provato, e ho concentrato tutte le mie energie e i miei talenti nella musica”. La sua formazione è quasi completamente da autodidatta, dai vocalismi alle leggi sul copyright.
In un’intervista di qualche tempo fa ha dichiarato che gli sta molto a cuore la percezione della gente nei confronti del processo creativo della sua musica, che gli piacerebbe essere impresso nella mente delle persone come “Jordan Rakei – the producer, the music maker, the arranger, the composer”. In effetti tutto il pacchetto sembra funzionare piuttosto bene, perché nei quattro mesi successivi all’uscita di Franklin’s Room riesce, oltre a farsi spingere dal collettivo Soulection, a fare capolino su palchi non indifferenti, tra cui spicca senz’altro quello condiviso con Robert Glasper, che figura tra i suoi punti di riferimento dichiarati.
“Suonare con Robert è stato surreale, è stato come tagliare il nastro del traguardo per la prima volta. In realtà ognuno dei grandi artisti con cui ho avuto la possibilità di suonare mi ha insegnato qualcosa e regalando un ricordo indimenticabile. La cosa più importante che tutti mi hanno ripetuto, da Glasper ai Fat Freddies Drop, è stata di non risparmiare mai niente nel mio lavoro, di impegnarmi sempre al massimo e di cercare di rimanere il più onesto possibile. Sono tutte cose che penso di aver messo in pratica negli ultimi due anni”.
Quando penso all’Australia e alla musica che c’è nella mia libreria o nel mio iPod faccio fatica a viaggiare con la mente in posti che siano diversi da Sidney, forse è un mio limite, colpa di Future Classic o una deformazione acquisita. Non riesco nemmeno a immaginare come si faccia ad emergere dalla scena di Brisbane, ma sicuramente è un problema che c’è solo nella mia testa perché Jordan mi spiega subito che la sua città “non è così diversa da Sidney, è soltanto più piccola. Credo di aver trovato il mio spazio grazie ai social media, la città non ha molto a che vedere. Però sono contento di essere cresciuto qui, è un posto pacifico e la gente è molto simpatica. Dovresti andarci”.
Dopo l’uscita di Groove Curse, lo scorso agosto, Jordan ha bissato quel senso di pace che aveva iniziato a far circolare nelle orecchie dei suoi ascoltatori e si è costruito un nome in grado di far vendere i biglietti senza fare da spalla a nessuno. Al momento sta girando l’Europa, e sabato sarà in Italia al Biko di Milano: “Non sono mai stato in Italia e sono piuttosto su di giri, anche se non so di preciso cosa aspettarmi. Non conosco molto della vostra musica, ma forse è uno dei motivi per cui sono curioso di vedere cosa succederà, ho imparato a tenere sempre gli occhi e le orecchie aperte e spero di tornare a casa con un quadro almeno abbozzato di cosa sia l’Italia”.
Quando gli spiego che insieme all’intervista metteremo in palio un paio di biglietti per il suo concerto di sabato, ci tiene a raccontarmi cosa farà sul palco.
“Lo spettacolo è piuttosto facile da guardare: ci sono io sul palco che mi occupo di batterie, bassi, tastiere e altri suoni tutti insieme, finché non ho un arrangiamento che mi permetta di cantarci sopra. È un set up divertente da suonare perché il risultato è sempre diverso, anche per me. Il mio consiglio è di indossare delle scarpe adatti a muovere i piedini”.
Testo di Mattia Costioli