Quando ho letto in un commento di Facebook che questo è “esattamente l’album che i fan dei Blur volevano” mi sono stranito; ho ben presente che faccia ha il fan “tipo” di Skrillex, ma anche quello degli Oasis (per tirare fuori una vecchia ed inutile rivalità) ma l’ascoltatore medio dei Blur, a mio parere, non esiste. C’è un motivo abbastanza evidente del perché di questa anomalia: i Blur nel corso degli anni hanno cambiato molte vesti, hanno fatto album con sonorità diametralmente opposte, sono passati da un semplice art-school rock a della pura sperimentazione psichedelica. Conosco chi ama solo “Song 2”, chi impazzisce per “Modern Life Is Rubbish”, chi gli ha voluto bene fino a “Coffee & Tv”, chi ha seguito Damon in Africa, chi ha preferito il garage rock di Coxon ed addirittura chi li ha scoperti grazie ai Gorillaz.
“The Magic Whip” non aveva chance dall’inizio; avrebbe senz’altro scontetato qualcuno e forse è per questo che sono una decina di anni che hanno pochissima voglia di fare musica nuova insieme. Meglio usare altri nomi, meglio cambiare generi, meglio abbassare le aspettative con progetti minori che tentare di fare musica per accontentare tutti, come hanno fatto U2, Coldplay e, si, gli Oasis.
Chi non ha ceduto alla tentazione di ascoltare il disco quando è leakato online, preferendo invece attendere la consegna del pre-order di iTunes (probabilmente, vista l’imminente trasformazione del servizio di Apple in una piattaforma di streaming, si tratta anche di uno degli ultimi acquisti) si è trovato con delle release centellinate nei giorni prima della pubblicazione ufficiale, un’idea che ha dato la possibilità di assaporare e conoscere queste canzoni una per una, ma che senz’altro rientra nella categoria “misteri discografici dei giorni nostri”.
Da questi ascolti iniziali (“Lonesome Street”, “Go Out”, “I Broacast”, “My Terracotta Heart” e “Ong Ong”) era facile farsi l’idea di un ritorno al britpop come se, colpiti da un attacco di nostalgia, la band avesse deciso di fare una specie di “Modern Lifer Is Rubbish 2”. Il resto del disco, però, smentisce tutto ciò.
Ha ragione Pitchfork: è quasi come se avessero deciso di scrivere una canzone per ogni stile che hanno affrontato negli anni. Analizzando la storia di come è stato partorito questo disco si capisce perché: l’album è nato da una data cancellata in Cina e da cinque giorni di riposo forzato in Hong Kong con relative sessioni in studio. Cinque giorni di riposo da un tour mondiale dove ogni sera hanno ripassato la loro storia da “There’s No Other Way” fino a “Out Of Time”; era ovvio che la loro maggiore influenza in studio non potessero essere che… i Blur.
Ripassare quei vecchi classici, vedere la forza con cui certi brani si sono cementificati negli anni deve averli ispirati a sperimentare meno e scrivere invece canzoni che potesssero lasciare un segno. Non a caso, “The Magic Whip” è anche il loro album meno ambizioso a livello di sonorità.
Non è ambizioso, ma almeno è onesto; non è niente di più che quattro amici di vecchia data che fanno quello che hanno sempre fatto; musica pop. Il tema dell’amicizia spunta qua e là nei testi di Damon, che dedica la splendida ballata “My Terracotta Heart” alla tormentata relazione con il chitarrista Graham Coxon; sembra un brano preso da “Everyday Robots” di cui Damon riprende anche l’argomento centrale, la paura della tecnologia e della freddezza dei rapporti di oggi. “There Are Too Many Of Us”, racconta di come le immagini di una tragedia non ci colpiscono più, e “I Broadcast” è una tirata contro chi si sente in dovere di postare qualcosa online qualsiasi cosa fa, solo per i like.
Come ogni album dei Blur c’è anche un brano davvero malriuscito; meno parliamo del funk bianco di “Ghost Ship” e meglio è per tutti.
A livello musicale si tratta dell’esatto contrario di “Think Tank”, dove, senza Coxon, Albarn aveva sfogato tutti i suoi stimoli; qui la semplice ed efficace musicalità del chitarrista prende il sopravvento e, come sempre, fa da giusto bilanciamento alle melodie un po’ sghembe del suo cantante.
“The Magic Whip” è quasi un instant album, una fotografia di come i quattro processano la realtà che gli sta attorno; non puntano sui loro personaggi, non è musica narcisa o autoreferenziale, ed in certi momenti è un po’ estraniante, proprio come quella piazza della Corea del Nord descritta in “Pyongyang” o le scritte neon che creano l’atmosfera crepuscolare di “New World Towers”.
E’ ruvido come la realtà che descrive e proprio come essa a volte è difficile da amare fino in fondo. E forse proprio perché non cercano di compiacere, i Blur hanno fatto “esattamente l’album che i fan volevano”.