L’ultima volta che ti abbiamo parlato dei Mamavegas era proprio per presentarti il loro ultimo lavoro, “Arvo”, prodotto dalla 42 records. Oggi ritorniamo a parlare di loro. Anzi, ritorniamo su “Arvo” perché a parlarne siano gli stessi Mamavegas, nell’ormai consueta rubrica Disco Raccontato.
Blessed and gone
E’ un apertura di disco molto significativa per noi, una dichiarazione di intenti: iniziamo con la botta, chitarra distorta, cosa che nel disco vecchio era quasi sparita e ritmo serrato e energia, subito. E’ solo uno degli aspetti di “Arvo”, ma ci tenevamo che arrivasse agli ascoltatori dal primo secondo.
L’abbiamo definito un inno lisergico, un’immersione in una natura oscura, a cui ci si abbandona e che prende il sopravvento; un bosco di suoni e luci che avvolgono un gruppo di ragazzi, che si lasciano andare e dimenticano le paure che tutti ci portiamo dentro, scoprendosi parte di un universo mistico di simboli ancestrali.
Non si sfida la natura, non ci si arrende spaventati, si cerca di ricordarsi di farne parte; così forse anche un viaggio in un bosco può finire con un ritorno a casa.
Wonder tortilla E’ la canzone più allegra del disco musicalmente, ma prende spunto da un avvenimento tragico, la morte di una ragazza di Battipaglia durante un’immersione subacquea; questa ragazza lavorava come clown, e il suo nome d’arte era appunto “wonder tortilla”, e questo aspetto è quello che in qualche modo cerchiamo di ricordare nel ritmo allegro della musica. E’ un omaggio e un ricordo, e anche una riflessione sull’attrazione per il mare e per il suo sottofondo, sul guardare al mondo dal basso, vedere la natura ribaltarsi e sentirsi parte di un “tutto” a cui non apparteniamo più e che può finire per sovrastare e uccidere.
Wonder tortilla ha avuto una gestazione difficile; qua, come in diversi altri punti del disco, ci è stato di grande aiuto l’intervento di Andrea Sologni e Giacomo Fiorenza (che hanno rispettivamente registrato e mixato “Arvo”): avevamo mandato loro le pre-produzioni, per aggiustare alcune cose strutturali prima di entrare in studio, e le risposte di entrambi sono state piuttosto omogenee. TAGLIARE!! Ed effettivamente in questo pezzo si è risolto un nodo che ci creava molte perplessità; avevamo lavorato tantissimo alla coda, ne avevamo una decina di versioni diverse, nessuna convincente, ma non avevamo il distacco giusto per dire semplicemente “non funziona? tagliamola!”.
E’ stato importante capire che l’aiuto in fase di produzione di persone esterne (fidate e competenti!) può veramente risolvere una canzone! non so se qualche anno fa avremmo avuto il coraggio di fidarci così tanto..
Ten days
Parliamo ancora di acqua, tema ricorrente del disco; qua l’acqua è un mare da attraversare, un nemico per chi attraversa il mediterraneo per raggiungere l’Europa, ma un’onda può diventare la speranza a cui aggrapparsi nel corso di un viaggio del genere.
Alcuni di noi sono a stretto contatto con il mondo della migrazione per esperienze personali, e le storie di viaggio dei migranti, con tutta la loro forza, sono entrate in questo testo; l’acqua per i migranti assume delle forme e dei significati lontanissimi da quelli che può avere per noi, la paura, la speranza, il futuro, la nuova vita dietro al rischio così concreto della morte.
Musicalmente è un altro esempio di nuova modalità di scrittura; la canzone originaria è profondamente diversa, e solo il lavoro di sala, strumenti in mano, ci ha permesso di smontare totalmente l’idea da cui eravamo partiti, arrivando a un’esplosione e un trasporto psichedelico impossibile da costruire da soli o davanti a un computer. Ed è su “Ten Days” che ha preso forma un’altra modalità nuova nel nostro modo di scrivere: la cessione del diritto di proprietà; chi scrive un pezzo lo porta in sala e lo abbandona agli altri, e da quel momento i suoi pareri hanno lo stesso peso di quello di tutti. Cosa non facile da accettare per chi scrive una canzone, ma che forse ha reso “Arvo” un disco veramente corale.
P-syndrome
L’intenzione era di fare un pezzo liberatorio, aperto e live, suonare come una band elettrica vecchia maniera, e ne è uscita la canzone forse più divertente da suonare dal vivo; ci faceva e ci fa venire in mente alcune cose dei The Cure.
E’ uno dei brani più “Arvo” di Arvo, scritta e pensata sui monti della Sila, vicino al lago che dà il titolo al disco; ci sentiamo il sentimento che è alla base di questo lavoro: la nostalgia; nostalgia per i luoghi in cui siamo cresciuti e che non riusciremo mai più a rivivere nello stesso modo, che si traduce in nostalgia per un certo modo di suonare e giocare con le chitarre…
E anche nel testo c’è una forma di nostalgia: si parla di “possession syndrome”, l’incapacità di separarsi dagli oggetti, fino ad arrivare a perdere il controllo e ad accumulare morbosamente tutto ciò che non si riesce a buttare; riempirsi la casa e la vita di ricordi e spazzatura, senza rendersi conto che le finestre di casa finiscono per essere coperte da scatole, e non entra più un raggio di sole.
The flood
Questa è la prima canzone del “nuovo corso”. Nasce subito dopo la pubblicazione di “Hymn for the bad things”, e come spesso capita è figlia della saturazione da disco finito, e della voglia di fare tutt’altro. In questo caso di arrivare al vuoto, di arrangiare una canzone con il silenzio e con le pause. E’ stato impegnativo e strano per noi avere lunghi momenti di un brano in cui siamo in 2 o 3 su 6 a suonare, lo consideriamo un grande passo in avanti. E’ stato uno dei punti fermi del disco, per certi versi una linea guida sul tipo di arrangiamenti che volevamo.
Parla di acqua e di come l’acqua possa distruggere e azzerare, e di come da una distruzione si possa ricominciare; fiumi, monti, città fioriscono su un corpo esausto sopravvissuto all’alluvione e danno vita a un mondo nuovo, e realizzano una promessa di amore e rinascita.
January 19
Uno di noi è recentemente diventato padre. Aveva iniziato a scrivere questa canzone poco dopo la pubblicazione del primo disco (tanto che il titolo provvisorio è stato “Post” fino al 19 gennaio, giorno della nascita della bimba). Durante l’attesa si parlava tanto di una presunta sensazione di estraneità al momento della nascita, “certo che ti amo sei mia figlia, però in realtà chi sei?”. Un padre secondo alcuni si troverebbe spiazzato davanti al neonato, lo sente come uno sconosciuto. “January 19” parla di questa paura, che poi in realtà si è rivelata infondata: al momento della nascita nessuna estraneità, nessuno spiazzamento… rimane tutto il resto: l’amore, la curiosità, la protezione.
Per tanto tempo è stata una bella strofa senza ritornello, tanto che è rimasta a rischio fino a poco prima di entrare in studio; si è sbloccata con un ritornello cantabile e pop quasi per caso, “qua ci vorrebbe una cosa tipo…”, uno di quei casi in cui la melodia che cerchi per mesi arriva di botto, quando quasi non la stai più cercando. E ci è sembrata così pop e aperta che abbiamo deciso di esagerare, con il cambio di tonalità nella coda, proposto quasi per scherzo.. .un po’ di Sanremo in “Arvo”!
Count to four
Questa forse è la canzone più canzone di Arvo; un impianto semplice di chitarra acustica basso e batteria, che da subito ci è sembrato reggere da solo e che siamo riusciti a preservare dalla smania di colorare e riempire. L’incastro ritmico dell’elettronica su un ritmo di batteria molto scarno è un giochetto puramente numerico, venuto in mente alla guida del furgone in tour, di quei giochetti al limite dellautismo che possono fare i musicisti, e che però poi spesso messi in pratica non reggono. Così anche la base della melodia, nata in furgone e registrata in fretta e furia su un cellulare per non dimenticarla.
Questa origine numerica ha portato anche al testo, una riflessione sulla finitezza, sulla “contabilità” nella vita reale e nei rapporti di coppia. Si parla di “noetherianità”, sostanzialmente la proprietà di alcuni insiemi numerici infiniti di essere generati da un numero finito di elementi. Ci si aggrappa ai numeri e al poter contare e definire tutto, per non arrendersi alla fine di una storia, a qualcosa che non si capisce e non si definisce.
I pezzi così secondo noi sono i più difficili da mixare, non c’è niente dietro cui nasconderti, devi restituire l’autenticità e il calore degli strumenti senza artifici, ed è stato bellissimo il momento in cui Giacomo Fiorenza, persona poco incline ai complimenti o alle smancerie (chi lo conosce lo sa), si è lasciato andare alla soddisfazione di un mix riuscito così bene. Almeno, così ci pare.
Shimmers
E’ vero che questo disco è più collettivo dei lavori precedenti, ma quando i singoli sanno qual è il suono di insieme può succedere che una canzone arrivi già perfettamente impacchettata e funzionante. Così è stato per “Shimmers”. Testo, musica, arrangiamento, tutto pronto, tutto adatto a quello che volevamo come gruppo, tempi dilatati, accordi lunghi, poche complicazioni, abbiamo dovuto solo suonarla rifinirla e registrarla così com’era.
Il testo racconta due storie, una coppia messa alle strette da difficoltà economiche, e poi due poliziotti che prima di caricare una manifestazione si convincono l’un altro che è meglio “spegnere il cervello” e agire, lasciando da parte le remore morali. Due piccoli spaccati di realtà, cose di cui parliamo poco generalmente; ma anche questa è natura, la natura dell’uomo che risponde alle crisi cercando qualcosa che brilli a cui aggrapparsi.
On my knees
“Ragazzi ho scritto un pezzo gospel, non credo vada bene per i Mamavegas, ma ve la faccio sentire comunque”.
In effetti all’inizio non sembrava andare bene, ma era così completa e così canzone che abbiamo voluto provare; e la forza delle canzoni che funzionano è che le puoi rigirare e riarrangiare come vuoi, non perdono nulla.
Probabilmente si sentirà che eravamo stati poco prima tutti insieme a un concerto dei Timber Timbre, e le loro ambientazioni ci hanno sicuramente influenzati, fatto sta che dopo un po’ di tentativi a distanza è stato ancora il trovarci in sala a dare la veste giusta a “On My Knees”. Il calore dell’Igloo Audio Factory di Andrea Sologni (lo studio dove abbiamo registrato) ha fatto il resto, con quasi tutti gli strumenti registrati sfruttando i riverberi naturali dello studio.
La canzone parla di uno di noi, messo “sulle ginocchia” da un rapporto che va in pezzi, ma si va avanti, cercando l’orgoglio per le scelte fatte, cercando di capire gli errori, e di combattere o vivere la nostalgia che si insinua in ogni momento della nostra quotidianità quando una storia finisce.
Last call
In ogni album che si rispetti ci vuole una ballad! Questa è la “ballad della grigliata”, nata davanti a brace e vino: i Mamavegas non sono tutti di Roma, e ci vediamo per provare e per arrangiare nello studio di uno di noi, poco fuori Roma, in campagna. Per questo disco abbiamo deciso di fare chiuse di 5-6 giorni in cui abbiamo vissuto, suonato, mangiato, dormito insieme. E la sera non si riesce a staccare del tutto, e con le chitarre in mano è venuto fuori questo pezzo, che ha incredibilmente resistito al risveglio (“ah, suona bene anche da sobri!”).
Abbiamo scelto di lasciarla aperta fino a quando non saremmo arrivati in studio, e di arrangiarla (poco) direttamente in fase di registrazione.
L’Igloo Audio Factory ha delle splendide stanze in pietra, e in una di queste abbiamo registrato live tutti insieme “Last Call” con poco più di un microfono, con i rientri, macchine che passano, gatti che miagolano (si sente, cercatelo!).
Anche qua c’è l’acqua, il mare, e stavolta il mare è la via di fuga, il luogo dove si possono rovesciare gli schemi e reimpostare tutto; l’ultima possibilità per salvare un rapporto logorato dal quotidiano è salpare, da soli o insieme se l'”ultima chiamata” viene raccolta.
Qui guardi il video di “Ten Days”, uscito proprio oggi.