Ricordo d’aver cominciato disperatamente a cercare un disco che non fosse triste. O meglio, un disco che non apparisse triste, al di là di quelle che potessero poi essere le reali intenzioni di chi l’aveva scritto.
Negli ultimi tempi ho permesso troppo spesso alla drammaticità di entrare nella mia vita, con una serie tv, un libro, una persona. E la drammaticità, per quanto sia bella, è triste.
La mia attenzione è ricaduta sul nuovo album dei Hiatus Kaiyote, una band neo-soul australiana, che non avevo mai sentito nominare prima d’ora, se non fosse per un piccolo accenno fatto da Alessio Bertallot su queste pagine. Questa è stata la prima cosa a rendermi non-triste: poter scoprire da zero un artista, o una band, che ha già parecchi lavori alle spalle mi stimola sempre molto. Sarà per questo che mi piace la storia.
Nonostante sia cresciuto in una famiglia che non mi ha mai detto più di tanto di non giudicare un libro dalla copertina, mi son sempre riproposto di non farlo, salvo poi contraddirmi con i fatti. Sistematicamente scelgo libri (quelli ci carta) dalla copertina, film dalla locandina, e album dalla cover. Gli Hiatus, anche sotto quel punto di vista, avevano già vinto.
Non mi restava dunque che portare la bici all’Area Bici vicino casa, aggiustare la maledetta catena, e riprendere ad ascoltare musica rischiando la vita. Quando ho parlato a mia mamma di questa mia nuova idea infatti, il suo primo pensiero è stato sulla sicurezza “non è che con le cuffiette non senti le macchine?”, mia madre fa sempre così, fa domanda che in verità sono affermazioni (e rimproveri) e non fa mai vere domande.
“Choose Your Weapon” è un disco abbastanza lungo, molto ben suonato, e nella descrizione che ne dava il Times, che l’ha premierato, uno disco d’ambiente. Mi sembrava davvero l’ideale.
E lo è stato.
Torno a lezione per la prima volta dopo i fatti di venerdì pomeriggio, fatti di cui ho sentito e letto allo stremo, ma di cui tuttavia non ho parlato con nessuno dal vivo. Quasi il week-end fosse bastato ad assorbire tutte le polemiche, e qualche strada pulita in più sufficiente a dimenticare.
Il primo tratto di strada è, come sempre, il più piacevole. Riesco a godere immediatamente di una delle più elle tracce “Shoalin Monk Motherfunk” un titolo straordinario, e un ritmo che comincia a farmi capire cosa possa significare un album d’ambiente. La cantante, che verrò poi a sapere chiamarsi Nai Palm sembra avere un timbro vagamente simile a quello di Fatima, e Fatima mi piace davvero molto. Più di una volta, nel descriverla, ho usato l’espressione “fare l’amore con la sua voce”, che credo essere un gran complimento al di là di ogni doppio senso infantile.
Mentre guardo la gelateria dove pochi giorni prima ho preso un caffè, penso che questo album sarebbe potuto durare la metà degli effettivi settanta minuti. Ci sono 8 tracce su 18, che non sono veramante tracce, ma neanche skit, servono (forse) a collegare un album molto lungo e che già so non essere in grado di terminare nella mia andata e ritorno. E so che non potrò farlo neanche il giorno seguente, perché probabilmente pioverà ed allora andrò in tram, il 15, il mio preferito.
Poi ospiterò per una notte il fratello di un amico, dopodiché tornerò a casa (quella vera) a Napoli, per la terza volta in pochissimo tempo, per la laurea di mia sorella.
Le atmosfere positive dell’album mi aiutano a pensare molto positivamente l’avvenimento. Sono molto contento del suo traguardo, e non è una cosa che mi capita molto frequentemente. L’essere felice per gli altri intendo. Almeno so scegliermi i dischi, è “Fingerprints” ne è la controprova. Di tutto quello che ho ascoltato “In Bicicletta” questo è di certo di un livello superiore a tutto.
Sono arrivato in università, dove mi aspetta una piccola lezione di un ora e mezza con un professore dalle cravatte brutte, ma molto simpatico, e una specie di dibattito organizzato da noi studenti con tre professori con idee diverse circa l’origine della crisi.
Uno dei tre, quello che ritengo meno “bravo”, ultimamente mi ha un po’ scombussolato le idee, e nei tragitti in tram, degno sostituto della bici ferma ai box, mi sono ritrovato a pensare a lui ed a quello che dice: “in Italia non produciamo cultura”. Quella immagine mi ha ferito, non so neanche bene perché, tanto è vero che ho continuato a leggere un libro, che però è particolarmente triste. Sul tram non ascolto mai musica, perché la gente mi osserva, e mi da fastidio essere guardato mentre ascolto.
Sulla strada del ritorno imposto il mio iPod un paio di tracce avanti a quella cui ero arrivato. Ho davvero urgenza di ascoltare questo album per poterne scrivere.
Mi ritrovo su “Atari”, che mi colpisce particolarmente per gli “influssi” world che ci ritrovo, e che a dir il vero sono presenti in tutto l’album.
La cosa buffa è che non so assolutamente nulla degli Hiatus, ho preferito così. A volte infatti, mi lascio influenzare dalle informazioni pregresse, creando mondi tutti miei, in cui poi inserisco gli artisti dandogli il ruolo che voglio.
Se poi loro non rispettano questo ruolo, non mi piacciono più. Mi è successo con Flying Lotus, con Taylor McFerrin, e potrei citarvi almeno altri quattro esempi.
Tutto questo album perciò, lo farò scorrere così, pensando di star ascoltando quattro artisti black, che campionano minimamente world music, mentre io mi fermo al bancomat a prelevare un po’ di quei soldi che i miei genitori gentilmente mi caricano per vivere. Sono ancora in quella fase in cui pur facendomi domande sul “da dove” arrivano quei soldi, posso prendermi il lusso di essere sicuro che ci saranno anche domani, e domani ancora.
Tra due anni, il discorso potrebbe essere diverso.
Mentre sono sull’ultimo viale del percorso, quello in cui il mio condominio è ubicato, cerco di far mente locale e di rispondere alla domanda “alla fine il disco è riuscito nell’intento originale?”.
Probabilmente sì, il soul d’altronde è sempre un ottimo modo per guarire le ferite, che sia esogene o endogene. E poi “Molosses” è una traccia bellissima, con un ritmo energetico, e un bridge favoloso. Decido di saltare l’ultimo pezzo, per far sì che il ricordo finale dell’album sia la sua traccia più bella. È molto più facile così poterne scrivere. Mentre aspetto l’ascensore riprendo a quello che il professore cattivo ha detto circa la concezione dell’economia da parte della corrente neo-liberista, e lo rapporto alla musica: ma la musica è il mezzo, o il fine?
Qui il primo episodio di “In Bicicletta”, qui il secondo.