Con una mina di album che sta raccogliendo consensi a mani basse e un video in arrivo in collaborazione con E-Green, Francesco Paura sta decisamente vivendo un periodo fortunato. L’abbiamo beccato al telefono per farci raccontare di “Darkswing”, di qualche collega con la lingua un po’ lunga e di com’è voluto il rap della penisola dagli anni ’90 ad oggi. E da buoni campani non potevamo non fargli una domanda sulla famiglia, soprattutto perché consideriamo questo album il raggiungimento di una maturità artistica e personale piuttosto rara in Italia.
di Irene Papa e Simone Mazzilli
Ciao Francesco, cominciamo con qualche curiosità. Durante la registrazione di “Slowfood” per la prima volta hai deciso di anteporre il tuo nome di battesimo al tuo street-name. In quel caso il contenuto e il mood del disco fecero coincidere Francesco con Paura. Perché hai deciso di mantenere questa formula?
Per crescere, almeno per quanto mi riguarda, bisogna essere il più vicini possibile alla propria persona. “Rimanere autentici”, come si dice in gergo. Il rap deve rispecchiare quello che si è e io ho cercato di mantenere una linea comune in tutta la mia carriera. Una volta cambiato nome, ho cercato di tenerlo con me. Il nome Paura deriva dalla mia prima formazione, gli Ordine del Pariamento, quando facevamo un rap più vicino all’horrorcore e ci chiamavamo Paura, Disgrazia e Castigo. Mi è rimasto da quel periodo lì.
Tu sei uno di quei pochi rapper che oltre ad avere, da sempre, una voce molto riconoscibile, possiedi un flow personale che ti fa dire alla prima nota “questo è Francesco Paura”. Come sono evoluti il tuo flow e il modo di utilizzare la tua voce da “Octoplus” a oggi? Agli esordi ti ispiravi a qualcuno in particolare?
Io penso che questa cosa sia fondamentale per tutti i rapper: essere riconoscibile e avere una cifra stilistica ben definita è il fine ultimo della ricerca che ognuno fa sul proprio stile. Chi risulta conformato a dei canoni è sicuramente poco originale. A metà anni ’90 è esploso l’off beat: l’off beat consiste nello spostare la rima da quadrata, sempre sulla battuta, in ritardo o in anticipo rispetto al beat. Anche il concept di questo album si basa sullo swing, sull’andare sul tempo in modo irregolare per trovare soluzioni ritmiche nuove. Tra gli esponenti più importanti di questa tecnica ci sono gli americani EPMD di Erick Sermon e Parrish Smith oppure oggi la usano rapper come il newyorkese MF Doom. Posso dire di ispirarmi a loro.
So che ti vedi spesso come un outsider di questo genere, uno che va ed è sempre andato per la sua strada. Ma sei anche uno che da vent’anni per forza di cose c’è stato dentro con tutte le scarpe. Cosa ne pensi delle critiche a episodi di Gruff sulla nuova e vecchia scuola ? Cosa non ti piace del modo in cui viene trattato oggi il rap italiano e cosa invece si è evoluto in meglio rispetto al passato?
Le liste nere di Gruff sinceramente non mi interessano né mi toccano minimamente, quello che voglio criticare lo critico con la musica, senza né fare nomi né inimicarmi nessuno. L’hip hop come lo intendo io è come lo esprimo, basta sentire il mio disco per capire come concepisco il rap oggi giorno: cerco di scrivere dei testi non scontati, provando a dire cose forti, sentite dentro, seguendo direzioni musicali nuove. Per me l’hip hop deve sempre contaminarsi, sempre evolversi. Negli anni ’90 era tutto più definito: ad esempio a Napoli c’erano i cosiddetti chiattilli ovvero i fighetti, e poi c’erano gli alternativi. Oggi questa linea di demarcazione è andata sempre più assottigliandosi tanto che socialmente non ci sono dei punti di riferimento chiari ed è un fatto deleterio. Il rap deve risultare scomodo, essere una voce che parte dal basso, deve portare avanti determinati messaggi, purtroppo questa cosa negli ultimi anni è andata un po’ scemando. Io vengo dai Public Enemy, dagli N.W.A., per me questo aspetto è fondamentale.
Parlando di produzioni, “Darkswing” è una mina: in “Alice in Chains” mi ha colpito il finale con queste chitarre acidissime, “Ma Quali Idoli” mi ha ricordato certe produzioni bianche di Eminem. “Overdrive” invece è un viaggione dentro le musiche di Nicolas Winding Refn. Chi ci ha messo mano e quanto hai contribuito in fase di scrematura?
“Darkswing” lo considero una sorta di concept album: ha un inizio e una fine guidati da una stessa linea, nonostante all’interno ci siano tante sfumature anche a livello sonoro. Questo dipende dal fatto che ho dato una direzione creativa un po’ a tutto, collaborando con vari produttori, ma cercando di mettere insieme gusti diversi sotto un cappello comune. Ho curato gli arrangiamenti di tanti pezzi: ad esempio “Alice in Chains” nasce dalla passione comune mia e di D-Ross per l’omonimo gruppo grunge e un giorno ci siamo detti ‘’ok, dobbiamo fare un pezzo intitolato così”. Lui mi ha fatto sentire questa strumentale che aveva abbozzato e quando ha realizzato il suono di chitarra finale c’ero anche io. Ho lavorato in parallelo su due studi: quello di D-Ross, dove abbiamo curato anche il master di tutto l’album, e quello del mio socio Daniele Franzese, dove abbiamo seguito gli arrangiamenti, la pre e post produzione di molti brani. La mia mano c’è spesso, anche lato produzione.
Parliamo di 5-6 anni fa minimo. Mi capitava di partecipare a delle discussioni molto interessanti sulla tua pagina Facebook in cui ci si scambiava consigli su film, serie tv e dischi che nulla avevano a che fare con il rap. Suppongo che le tue passioni siano rimase tali. Apriamo una mini rubrica al volo. Tre titoli: un film, un disco e una serie tv per cui sei andato in fissa nell’ultimo periodo.
Disco: “Run The Jewels 2” di Killer Mike e El-P. Per me hanno fatto un grandissimo album perché è come se El-P a un certo punto avesse detto “volete fare queste tracce lente con attitudine nuova? Vi faccio vedere io come si fanno”. Mi sono ispirato un po’ a questo metodo anche io. Serie TV: ne vedo davvero troppe, mi viene il “Trono Di Spade” perché è quella che sto seguendo ultimamente con la bava alla bocca. Film: “Youth”, il nuovo di Sorrentino. Sono un suo grande fan ed essendo lui napoletano per me è motivo di orgoglio doppio.
Tirando un attimo le somme, ti manca l’atmosfera da ballotta dei tempi d’oro o preferisci lavorare da solo?
In realtà solo solo non sono mai stato. Anche per questo album ho avuto la possibilità di collaborare con tanti musicisti, tanti produttori, ogni mio progetto alle spalle ha sempre una ballotta in un certo senso. Il vantaggio di poter lavorare come artista solista è quello di avere quasi totalmente il potere decisionale sul progetto e i tuoi gusti emergono a 360°, puoi decidere cosa fare e non devi mediare con nessuno. Dopo l’esperienza nei 13 Bastardi sentivo proprio l’esigenza di concretizzare il mio modo personale di fare musica.
Stai per avere una bambina e sei sulla soglia dei 40 anni. Citando una tua canzone, sogni ancora loro o adesso ti basta la famiglia?
Parliamoci chiaramente: il proprio nucleo familiare, anche quello allargato, è la cosa più importante che possa avere un uomo. Gli amici sono una cosa bellissima, ma si perdono e si acquisiscono. Io da buon meridionale metto la famiglia sempre al primo posto.