È domenica, c’è un’afa pazzesca a Roma, il cielo è di un grigio Battipaglia che difficilmente te la può far prendere bene. Però io sono carico e pieno di ioni positivi per un concerto che troppo spesso mi è scappato dalle mani all’ultimo momento e per motivi futilissimi (tipo Vespa rotta in tangenziale poche ore prime del live al Circolo degli artisti di qualche anno fa). Sì ho scritto ioni positivi e mi sono già pentito. Andiamo avanti. Dicevamo: quante cose son cambiate rispetto al 2012? Molte, un album in più sul groppone, molti fan al seguito e un palco decisamente più grande. Io me li ricordo i primi commenti al loro bell’album di esordio An Awesome Wave. Qualcuno li accostò addirittura ai Radiohead. Paragone necessario, quasi vincolante, se sei un giornalista musicale stempiato con mutuo da pagare al seguito e a cui è stato commissionato un pezzo su una band britannica che ama chitarrine e computer. Paragone, inutile dirlo, che regge al cazzo, soprattutto dopo l’ascolto del loro (debole, si può dire? sì, si può dire) debole secondo album con il quale però si son pagati Imu e rogito del trilocale nuovo a Leeds. Arrivo a Capannelle, il Pigneto del Rock in Roma.E capisco subito che c’è qualcosa nella società contemporanea che è sfuggita completamente al controllo dello stato (Ministero dell’Interno) e degli organismi addetti alla difesa degli attacchi massivi (Nato, Wired, Oltreuomo). E questa cosa sono gli shorts. Un mare nostrum di shorts di tutti i colori, di tutte le forme per tutti i culi di tutte le età. Poi si lamentano del calo vertiginoso delle nascite. No dico, mettetevi nei panni di un padre contemporaneo. Ma questo è un discorso che merita altri approfondimento sociologici che – si sappia – sono perfettamente in grado di portare avanti, ma in separata sede.
Dove eravamo rimasti? Ah sì, gli Alt-J e il Rock in Roma. Entriamo, ci facciamo strada tra questi plotoni di pericolosissimi shorts. Lo sguardo è per motivi sociali rivolto al pavimento, pulito e senza cartacce. Il sapore è quello di un festival europeo con tanto di bitcoin per pagarti le birre, i kebab ed evitare file. Il palco è enorme, tipo quello del Madison Square Garden, e mi sembra addirittura più grande di quello degli altri anni. A prima vista, sembra un palcoscenico fuori portata per gli Alt-J, ma i loro fan sono cresciuti, non di età (perché quella è bassa, bassissima) proprio di numero. Infatti all’inizio non sembra esserci moltissima gente, anzi. Ma manca ancora un po’ al concerto, ora suona il gruppo spalla. Passa il tempo e sale l’attesa, il pomeriggio diventa sera, la luce si fa scura, le ombre fioche, sembro Pascoli ma invece vi sto solo introducendo all’atmosfera del primo pezzo con il quale gli Alt-J si presentano al pubblico di Capannelle: Hunger of the Pine, che scatena le lingue di mezza Ciampino. Questa, dopo gli shorts, era una cosa a cui non ero pronto. Limonano tutti, ma proprio tutti intorno a me. Aspettavano solo primo acuto di Joe Newman per scambiarsi liquidi avvicinandosi ai confini della fellazio. E inizio a pensare che la serata sarà lunga, molto lunga. La canzone inizia con increspature elettro-pop che Newman cuoce marpione sul petto del pubblico. E su un letto di limoni e saliva attaccano con Fitzpleasure.
Something Good, Left Hand Free, Dissolve Me scorrono veloci come le affinate polifonie vocali del gruppo, e si arriva al bivio della serata: Matilda. E vi posso assicurare che pure i pochi rimasti a non limonare, perché magari erano venuti da soli o con la cugina, limonano. Tranne me, ovviamente. Perché io devo essere concentrato per questo report. La canzone è uno dei loro cavalli di battaglia, scende come vodka fresca in una notte d’estate a Vasto. Il pubblico si scalda (e vorrei pure vedere) e si esalta con Tesselate in una versione un po’ più chill del solito con alcune torsioni R&B. Qualcuno smette di limonare, ma solo perché ha una semi paresi dell’apparato digerente, quindi visto che ormai è quasi spacciato e l’ospedale più vicino è a 15 km, riprende a limonare. Il batterista Thom Green, vero e unico performer sul palco, si esalta con Warm Foothills e The Gospel of John Hurt, io continuo a guardare fisso a terra perché ormai sono un uomo psicologicamente provato dall’amore altrui. Più passa il tempo, più sento i pezzi del secondo album This Is All Yours, più penso che potevano fermarsi al primo, prendere un po’ più di tempo e ritornare con qualcosa di più forte, perché alcuni brani sembrano davvero paraculo e le attese dopo An Awesome Wave erano altissime.
Ma al pubblico piace, a questo pubblico piace tantissimo, ma proprio tanto tanto tanto (limonare). Però penso anche che forse ci sono pochi gruppi in giro con il loro tocco, con i loro reef, i loro testi sessuali accompagnati da caramellati lamenti vocali. Siccome continuo a guardare a terra, in alcuni momenti ho il presentimento di ascoltare i Bombay Bicycle Club o Wild Beasts, ma gli Alt-J hanno qualcosa di più clericale, più Cardinal Bertone per intenderci. Non manca molto alla fine del concerto, è passata poco più di un’ora ma sento che il live sta per finire. Ascoltiamo in rassegna Lovely Day, Nara, Leaving Nara e penso che sta cazzo di Nara stia agli Alt-J un po’ come le tube di falloppio a Vasco Brondi. Poi arriva l’ultimo pezzo: Breezeblocks e ci mettono tutto il synth pop indie brunch hispter risvoltino superga michael stipe che li ha portati a scalare le vette e a vincere il Mercury Prize. E poi ovazioni e applausi e qualche piccolo vaffanculo che mi pare scorgere ma forse ero io che mi rivolgevo al tipo di Oriolo Romano che continuava imperterrito a limonare la tipa come se stessero ancora suonando, ahò ma dove stiamo al concerto di Raf santa madonna? È il pubblico degli Alt-J penso, non dei Fischerspooner, prendere o lasciare. E comunque piano co sti shorts.