A chi fosse capitato di scambiare poche parole con May Nam verrebbe di certo facile immaginarlo in gite improvvisate tra i boschi alla ricerca del vitalismo perduto, ma anche in ritiri spirituali, sognanti e lisergici, a fuggire dal malessere della (ir)razionalissima società moderna. Chi si ritrovasse poi ad ascoltare Anacol Jut penserebbe certamente di aver immaginato giusto: si convincerebbe di riconoscere, tra i sample distorti e le percussioni ipnotiche, le storie di elfi e giganti dei miti nordici o quelle di demoni e dragoni delle leggende orientali; le voci e le melodie sembrano effettivamente narrare vicende meravigliose di personaggi fantastici, ma basta un’analisi poco più attenta per farsi un’idea dell’intento dell’autore: plasmare l’immaginazione del suo pubblico semplicemente liberandola da ogni schema mentale possibile.
Nella mente accelerata di May Nam transitano milioni di pensieri al secondo, e la capacità dell’artista di tradurli in musica è impressionante: potrebbe rivelarsi difficile, nell’immediato, riconoscere il bàndolo della matassa intellettuale, emotiva e sonora con cui si viene a contatto parlando con lui, o ascoltandone i lavori; nella sua musica coesistono stralci manipolatissimi di melodie disneyane e sigle di cartoni animati che fanno pensare al tema fondamentale del rapporto con l’infanzia: un’evidente predilezione per lo psych folk/noise rock di Avey Tare e Panda Bear (Animal Collective); l’interesse per le suite orchestrali e le musiche di scena dei compositori romantici di fine ottocento; l’eco rock & roll di certi pezzi bluegrass di David Bromberg, ascoltati (e ballati) da bambino insieme al padre.
Il risultato? Un lavoro che quasi sembra la versione allucinata di From Here We Go Sublime di The Field, in grado di mandare in tilt whosampled per il numero di richiami distorti, citazioni alterate, riferimenti trattati e sofisticati. Anacol Jut, che non a caso accenna a quel costrutto retorico fatto di frammenti sconnessi, è un disco cucito come il vestito di Arlecchino, fatto di zecchini colorati. È un Mistero Buffo recitato in una lingua reinventata, parlata e sonora, che è la miscela di molti linguaggi: quello elettronico sperimentale, quello psichedelico, quello degli archi delle opere classiche, quello degli arpeggi dissonanti barrettiani.
La sezione ritmica è tambureggiante, arricchita da note alte e campane tubolari in scala emozionale. Il lato melodico rivela gli ascolti classici e sinfonici e sembra il “tema sospeso” (anacoluto) di un viaggio acido dei Boards Of Canada in compagnia dei Sigur Rós e di Aphex Twin, a bordo di un Orient Express che si spinge attraverso l’Asia e arriva fino al Polo Nord.
Anacol Jut conferma quanto di buono avevamo sentito in Albatrost, l’Ep d’esordio. È un lavoro ricco di idee, che sono tutte buone ragioni per un ascolto ripetuto nel tempo. A ogni riproduzione si scopre qualcosa di nuovo: un suono, un brivido, una voce o l’ennesima follia, di quelle che solo le menti più sensibili e visionarie sanno osare.
La ricerca, la dedizione, la spontaneità, un bel po’ di coraggio e tantissimo entusiasmo rendono quest’album bello, interessante e continuamente sorprendente. Bravo.