Intervista a cura di Mirko Carera e Livio Ghilardi.
Domenica 9 agosto sarà protagonista dell’attesissima Elita Summer Sessions al Mavù di Locorotondo (Bari) all’interno dell’undicesima edizione del Locus Festival, insieme ad altri pezzi da novanta come Nils Frahm, Gianluca Petrella, il conterraneo Populous e Godblesscomputers (e ci scapperà persino uno special set dentro un trullo). A breve pubblicherà finalmente il suo debutto da producer, a distanza di due anni dall’ottimo EP “Have Visions”. Macina chilometri per il mondo selezionando dischi con cura maniacale, scratchando e talvolta rivitalizzandoli con prodigiosi “lifting”. Infine, indossa montature per occhiali invidiabili.
Questo e altro ancora è Jolly Mare, al secolo Fabrizio Martina. Partito dalla provincia leccese e arrivato fino al Sónar di Barcellona, un talento cristallino e un ascoltatore dalla conoscenza enciclopedica, del quale non vediamo l’ora di ascoltare l’esordio su LP.
DLSO l’ha intervistato: una lunga chiacchierata telematica in cui abbiamo cercato di rubargli anticipazioni sul disco, trucchi del mestiere e consigli per l’ascolto.
Parliamo del tuo primo album, in dirittura d’arrivo. Abbiamo potuto sentire un brevissimo snippet che ci ha esaltato e incuriosito parecchio, ci sembra che ci sia tanto cantato, molta varietà ma soprattutto suona proprio come ci aspetteremmo da Jolly Mare: cosa puoi anticiparci? Anche in merito alle collaborazioni presenti.
Ah bene, cominciamo subito con le indiscrezioni… ci ho lavorato per più di un anno, è tutto suonato (no sample baby) da me in buona parte ed altri musicisti, ci sono alcuni brani cantati ed altri più club-friendly. Un gran miscuglio di cose, tanto per cambiare.
Chi ha sentito questo assaggio si è subito accorto di un pezzone cantato in italiano, dieci secondi che rimangono in testa. Ci dicevi che quel pezzo sarà la tua condanna: perché?
È un pezzo a cui tengo molto, molto intimo. Preferisco non dire niente a proposito, vorrei che l’ascolto non venisse condizionato dalle mie opinioni.
Oltre ad essere un producer sei soprattutto un dj di altissimo livello: qual è stato il pezzo che ti ha dato la folgorazione e ti ha spinto a intraprendere questo percorso?
È un modo gentile per dire che valgo di più come dj che come produttore? (risata) Anche se così fosse non mi stupirei, metto i dischi da vent’anni e sono un produttore solo da quattro. La molla è scattata quando avevo tredici anni, sono andato ad una festa in maschera per carnevale con i miei compagni di scuola, noi eravamo tra i più piccoli. C’era chi era vestito da punk (allora andava per la maggiore), chi da diavolo, chi da donna, io indossavo il gilet da caccia di mio padre, degli stivali ed una maschera di gomma da Saddam Hussein. Non so da cosa fossi vestito precisamente ma faceva un caldo infernale con quella maschera addosso.
Ricordo di essere rimasto tutto il tempo accanto al tavolo dei giradischi (chiamarlo consolle era un po’ troppo), il dj usava i giradischi Technics originali, erano bellissimi non come quelle copiature a cinghia che si vedevano al tempo della Gemini o della Monacor, suonava pezzi tipo “Another One Bites the Dust” o “Monkey Chop” di Dan-I.
Se ne stava nell’ombra, in una dimensione diversa da quella di tutti gli altri ma al tempo stesso in stretto contatto con loro. Ho cominciato a mettere i dischi di lì a poco perché, oltre ad amare la musica, ho capito che era quello il mio modo migliore per divertirmi, sto bene quando faccio divertire gli altri.
Tra le altre cose mixare il genere che suoni tu non è per niente facile, spesso non hai tempo in entrata per lavorare il passaggio e devi andare di cut ci sono altri trucchi? Ci dai qualche dritta?
Non so bene che genere faccio, il punto è questo. Tutta musica diversa, con una buona percentuale di funk e di disco ma con in mezzo tante altre cose. Ogni mix è una storia a sé, spesso i dischi che suono sono stati registrati dal vivo senza metronomo, perciò non vanno neppure a tempo. Ci vuole un po’ di fantasia e gli scratch aiutano a creare delle transizioni interessanti dove il pezzo precedente e quello successivo non c’azzeccano per niente. Perciò ti consiglierei di incominciare a scratchare, ma se tieni alla tua salute mentale ed a fare vita sociale meglio lasciar perdere!
Il pezzo più difficile da mixare? Quello che ti ha fatto impazzire.
Qualunque pezzo è difficile da mixare se sei stanco o hai bevuto troppo. Il primo che mi viene in mente è “In Search Of Orchestra – Phenomena Theme”.
Tu usi tanto – e in modo sopraffino – lo scratch, in un contesto stilistico dove si tratta di una pratica poco diffusa: come nasce e come si integra all’interno di un tuo set?
Lo scratch è un retaggio del mio passato da turntablist che ho deciso di integrare nel set. Cerco di usarlo quanto basta per tenere viva l’attenzione di chi mi ascolta, per coinvolgerlo, senza risultare noioso. Sono il primo a rompersi le scatole quando il dj ferma la musica e si esibisce in numeri mozzafiato che solo lui può comprendere. Lo scratch è come il sale, quel tanto che basta.
Collezioni vinili: diccene due che non hai e che cerchi disperatamente.
Più che essere un collezionista ho una raccolta di dischi: non ho vincoli d’anno, d’artista, di genere, di stato di conservazione. Se quel disco in quel momento mi dice qualcosa lo prendo, e non compro da internet per lo stesso motivo per cui i funghi raccolti nel bosco e quelli presi dal banco frigo non hanno lo stesso sapore.
I dischi che vorrei sono troppi, finché non li trovo mi faccio bastare gli mp3 nel computer. I cd li detesto, è come se non esistessero.
La prossima volta che vado a caccia mi piacerebbe trovare “Guitar Interludes” di Joe Pass, “Action” dei Blackbirds era in cima alla lista e l’ho trovato finalmente qualche giorno fa.
Come nasce un “lifting”?
Da due esigenze: quella di proporre in serata un pezzo bellissimo che non “spinge abbastanza”, e quella di dare una svernata a questo o quel capolavoro che fu.
I metodi attuali di composizione ed equalizzazione della musica sono molto diversi da quelli che si usavano in passato, con il lifting appunto cerco di rifare il trucco aggiungendo un basso più grosso, una sezione ritmica più presente, cercando di modificare l’attitudine il meno possibile. Te lo immagini il David di Michelangelo dipinto di rosa color carne? Terribile. I capolavori si restaurano con cautela.
Nei tuoi brani hai campionato artisti mainstream italiani “controversi” come Vasco Rossi o la Bertè: hai avuto timori nel fare certe scelte? Cosa pensi ci sia di buono ed esportabile nel panorama musicale italiano più tradizionale e meno vicino ai circuiti indie o di elettronica?
L’ho fatto per render loro omaggio, per creare una continuità tra il mio presente ed il loro passato. È chiaro che di mezzo c’è della provocazione, è anche rischioso tirare in ballo certi nomi perché i saccenti dell’ultima ora, che magari giudicano per preconcetti, storcono subito il naso, ma a me questo non interessa, non mi lascio spaventare.
La nostra musica ha dei gloriosissimi fasti ed è stupido non riconoscerli e non valorizzarli, specie quando gente come Madlib viene a comprare dischi a Milano e chiede dei Pieros (Piero Umiliani e Piero Piccioni), Dj Shadow campiona Michele Zarrillo e Timbaland Lucio Dalla.
La musica italiana è per sua natura armoniosa, melodica, con dei suoni di gran gusto. Sono questi gli ingredienti di valore e da esportare.
Ad oggi il disco del 2015 di Fabrizio è…?
Per scelta non ascolto molta musica “nuova”, mi confonde le idee. Nell’iPod ho il nuovo dei Tame Impala che ha un sound fenomenale, la voce però è un po’ troppo moscia per i miei gusti, mi fa addormentare.
Una curiosità. Quando vi date il cambio in consolle tra dj vi salutate ma quasi sempre ci sono quei 30 secondi in cui vi parlate nell’orecchio annuendo in continuazione: che vi dite di solito?
Oh yeah funky fresh daje da dove si regola il volume delle cuffie?
Se si pensa al Salento viene in mente in primis il reggae e la scuola dei Sud Sound System. Oggi grazie a te, Populous, Luminodisco o Machweo si potrebbe ben parlare di un rinascimento elettronico leccese. Riconosci affinità tra di voi? Trovi che la vostra provenienza vi abbia influenzato in qualche modo? Qual è la tua percezione della tua terra, musicalmente e non?
Portiamo tutti gli occhiali. (risata) Abbiamo in comune una grande passione per la musica e tanta curiosità, coltivata in un posto dove devi andare a cercarla col lanternino, non ti salta addosso.
Il Salento è una terra meravigliosa, stuprata giornalmente da molti dei suoi abitanti e visitatori. A me sembra che le cose qui non vadano bene per niente: la terra è inquinata, poche infrastrutture, mentalità ottuse. Forse è per questo che facciamo musica: per fuggire via.
Ti definiscono il campione della nuova italo disco: qual è il tuo rapporto con il genere che fu? Consigliaci se ti va qualche mina nascosta del passato.
C’è stato un contest in una discoteca sconsacrata al quale hanno partecipato tutti i produttori e dj italo disco (iscritti al sindacato e con regolare patentino) ed io ho vinto perché ero quello che muoveva meglio la gamba destra a tempo. Dai non sono il campione di niente, mi lusinga questa definizione e cerco in ogni set e ad ogni uscita di dare il meglio.
Adoro la italo disco perché nelle sue migliori espressioni è molto freak, ogni artista del passato cercava di essere diverso dagli altri con il modo di vestire, le movenze, gli strumenti. Mi lascio ispirare molto cercando di non scadere nel didascalico, voglio che quello che produco suoni comunque nuovo.
Vi consiglio un paio di titoli: “Pat & Pats – Tobago” e “Creatures – Machine’s Drama”
Vi ringrazio, è stata una bella intervista, fitta di domande interessanti.
Se avete voglia di ascoltare la mia musica la trovate qui:
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Tante belle cozze!