Rosa, contraddizione pura, voglia
di essere il sonno di nessuno
sotto tante palpebre.
Rainer Maria Rilke
[column size=”2/3″ center=”yes”]Ogni primavera in Giappone avviene un’esplosione rosa: migliaia di rami tempestati di boccioli di ciliegio brillano per pochi giorni col sole e con la luna. Un breve momento di grazia, questo, prima di cadere a terra e testimoniare come tutto nella vita sia destinato a svanire. L’unione di meraviglia e di precarietà rappresentata dalla fioritura è ben riassunta in un termine della tradizione nipponica: mono no aware.
Mono no aware è letteralmente quella sensazione di empatia nell’apprendere la caducità dell’esistenza; ad un livello simbolico è il sentimento più profondo delle cose, una soave melanconia di fronte allo spettacolo della natura e delle stagioni. Un’esperienza di intensa partecipazione davanti a qualcosa che ci tocca e che dà vita ad un raro momento poetico in cui pensiero ed emozione prendono forma.
Depression Cherry è quella poesia. Un colore, un luogo, un sentimento, un’energia, citando direttamente le parole dei Beach House. È la scintilla (Sparks, appunto), l’attimo immediatamente seguente la fioritura (Bloom è infatti il titolo dell’album precedente), il lasso di tempo in cui permangono, quasi fluttuando nell’aere, stupore e dolcezza. Il presente.[/column]
[column size=”2/3″ center=”yes”]Non solo. Depression Cherry è anche e soprattutto quel desiderio folle e sublime di catturare e rendere eterno quell’attimo – un desiderio che sottende tutta la poetica del duo di Baltimora. Così come i pittori giapponesi immortalavano l’hanami (la fioritura dei ciliegi), per sua natura fugace, Victoria Legrand e Alex Scally riescono nell’impresa irrazionale di sublimare e fissare ciò che è passeggero. Ne nasce un gioco di indugi, di allunghi e di lenti trascolorare che contraddistingue la loro musica e che conferisce a ogni canzone l’illusione di essere potenzialmente infinita.[/column]
“Alex Scally: I think every single one of our last songs on records – have ended with fades. And I think that’s because we wanted to create the feeling that it was never going to end. And that’s one of my favorite feelings in a song. It’s like you don’t want the feeling to end, ever.”
“Victoria Legrand: Because in reality, things do end. They brutally end, they end no matter what you do. There’s no controlling that.” (via)
[column size=”2/3″ center=”yes”]Ed è proprio con un fade-in di tastiera che inizia Depression Cherry. La prima traccia, Levitation, trasferisce in note un volo in slow-motion: la voce di Victoria, in questo disco più sontuosa che mai, ci fa fluttuare a mezz’aria. E’ qualcosa di magico: sembra che qualcuno abbia premuto il tasto pause – eppure impercettibilmente la musica procede, macinando millimetri per raggiungere quel posto dove Vic promette di portarci (There’s a place I want to take you).
Millimetri e minime variazioni – questa è la chiave di lettura del quinto disco dei Beach House. Minuscoli cambiamenti che fanno procedere il brano dando vita a melodie che si arrotolano, ripetendosi e avvolgendosi su loro stesse (si senta lo sblocco melodico di Sparks verso i 2:50 dopo ripetute spirali armoniche) fino ad aprirsi in un luogo e in un tempo eterni.[/column]
[column size=”2/3″ center=”yes”]Lo spazio, ad esempio. Space Song è il modello perfetto, insieme a PPP, della capacità dei nostri di scrivere canzoni circolari. Figlia di un fade-in micidiale, Space Song riprende un classico pattern ritmico dei Beach House (si veda Walk in the Park) e scandisce i suoi passi con un basso – a differenza dell’usatissimo Moog Taurus. La melodia richiama Il Cielo in una Stanza, sempiterna canzone di Gino Paoli nonché quintessenza della musica italiana anni ’60; il fatto curioso è che le parole del testo di Il Cielo calzano a pennello per descrivere le sensazioni di smarrimento, sogno e immensità indotte dalla musica dei Beach House:[/column]
questa stanza non ha più pareti ma alberi, alberi infiniti […] questo soffitto viola no, non esiste più/io vedo il cielo sopra noi che restiamo qui/abbandonati come se non ci fosse più niente, più niente al mondo./ Suona un’armonica: mi sembra un organo che vibra per te e per me/su nell’immensità del cielo.
[column size=”2/3″ center=”yes”]A moto perpetuo e perfettamente circolare è anche PPP, highlight del disco. Un hook perfetto dà il la ad un carosello in continuo movimento; uno spoken word teatrale dal sapore anni ’60-’70 (la mente va all’inizio di Message Personnel di Françoise Hardy) è il preludio di un’armonia che vorremmo semplicemente durasse all’infinito. Con una coda a dir poco magnifica, PPP incarna l’illusione di rendere eterno e ripetibile un attimo perfetto e unico (it won’t last forever or maybe it will, canta Victoria) inquadrando un topos che troviamo spesso nelle loro liriche: let’s go on pretending that the light is neverending – we still have the summers in All The Years, contenuta nel disco Devotion; it happens once and rarely twice di Wishes da Bloom; fino ad arrivare al manifesto, Silver Soul, con il ritornello strappacuore it is happening again.[/column]
[column size=”2/3″ center=”yes”]La ripetibilità tanto anelata si declina anche in simboli frequenti: la ruota, le onde e il mare, i fiori, i sogni, tutti elementi dalla natura circolare e ricorrente che tracciano le coordinate entro le quali si muove il loro immaginario teso a creare una vera epica onirica e fantasy. Al mondo della fiaba appartengono di diritto pezzi come Wildflower o Beyond Love, splendida e regale ascesa in un regno incantato alla Labyrinth. Universi lontani: parlavamo all’inizio di Giappone. Bluebird e 10:37 sono brani che per sonorità e atmosfere richiamano sorprendentemente il mondo orientale grazie ad un incedere raccolto e ad un’atmosfera solenne. 10:37 ha una tastiera che ricorda il suono di una campana tubolare mentre Bluebird propone un giro di chitarra che schiaccia l’occhio all’indimenticabile Forbidden Colours di Ryuichi Sakamoto.
E quindi si arriva all’ultimo brano. Dobbiamo ammetterlo, le tracce finali dei Beach House hanno sempre qualcosa di caratteristico: che siamo arrivati alla fine, lo si intuisce subito. Prendi l’immensa Take Care o l’epicissima Irene; per il commiato i Beach House portano all’ennesima potenza il motto “repetita iuvant” e Days of Candy non fa eccezione. Musicalmente è quanto di più alto, lirico e articolato abbiano mai fatto i Beach House. Un coro a 8 voci introduce un’armonia dal sapore antico mentre la voce di Victoria spicca il volo e tocca vette inesplorate che manco Julee Cruise in Falling, accompagnando la canzone verso un ad libitum cremoso e una chitarra dall’occhio languido.
È sul finale che il mono no aware tocca i nostri cuori mentre i petali di ciliegio toccano terra: these days of candy live in your mind, canta Vic. Questi giorni di meraviglia e di dolcezza, come l’estate, stanno passando e diventando, poco a poco, ricordi. [/column]
[expand more_text=”English Version” less_text=”English Version” link_color=”#99CFAF” link_style=”button” link_align=”center”][column size=”2/3″ center=”yes”]Non resta che rinnovare l’attesa per una nuova stagione, un nuovo anno e una nuova fioritura, e nel frattempo perpetuare il sacro sentimento del presente – che è allo stesso tempo attesa del futuro e attesa passata.
Just like that/it’s gone.[/column]
Rose, oh pure contradiction, joy
of being no-one’s sleep
under so many eyelids.
Rainer Maria Rilke
[column size=”2/3″ center=”yes”]
Every year in Japan an explosion of pink occurs in the Spring: thousands of branches are tinted with cherry blossoms and shine beneath the sun and the moon. A brief moment of grace before they drop to the ground, proof of how all in life is doomed to disappear. The coexistence of marvel and transience described by this blossoming is perfectly encapsulated by the traditional Japanese expression mono no aware.
Mono no aware is quite literally that feeling of empathy which is felt upon learning of the transience of existence; on a symbolical level, it is a profound awareness of things, a gentle melancholy before the spectacle of Nature and its seasons. An experience of intense participation in something that affects us and gives life to a fleeting poetic moment where thought and emotion take shape.
Depression Cherry is that poem. A colour, a place, a feeling, an energy, to quote Beach House’s words directly. It’s that spark (as in the song, Sparks) one instant after the flowers bloom (and Bloom is the title of their previous album), the timespan where amazement and sweetness linger in the air as if floating. It’s the now.[/column]
[column size=”2/3″ center=”yes”]But not just that. Depression Cherry is also mainly that mad and sublime desire to seize a moment and make it eternal – a desire that is implied throughout the duo’s poetics. Just as Japanese artists would portray the naturally fleeting hanami (cherry trees blossoming), Victoria Legrand and Alex Scally succeed in their irrational attempt to exalt and define that which is transient. The result is a game of hesitation, of extension and of slow colour changes that is typical of their sound and provides each song with the illusion of being potentially infinite.[/column]
“Alex Scally: I think every single [song] of our last songs on records – have ended with fades. And I think that’s because we wanted to create the feeling that it was never going to end. And that’s one of my favorite feelings in a song. It’s like you don’t want the feeling to end, ever.”
“Victoria Legrand: Because in reality, things do end. They brutally end, they end no matter what you do. There’s no controlling that.” (via)
[column size=”2/3″ center=”yes”]Consistent with these words, Depression Cherry begins with a keyboard fading in. The first track, Levitation, turns a slow motion flight into sound: Victoria’s voice, at its most luxurious in this album, makes us float in mid-air. The effect is magical, as if the pause button had been pressed but the music is imperceptibly going on, grinding on millimetre after millimetre to reach the place Vic is promising to take us (There’s a place I want to take you).
Millimetres and tiny variations – the key to Beach House’s fifth album. Tiny changes make the track go on, giving life to melodies that roll into each other, repeating and unwinding on themselves (the melodic break when Sparks reaches the 2:50 mark after repeated harmonic spirals is a good example), until opening into a place of eternal time.[/column]
[column size=”2/3″ center=”yes”]Space, for example. Space Song is the perfect model, along with PPP, of how this band is capable of writing circular songs. Rising out of a killer fade-in, Space Song picks up on the classic Beach House rhythmic pattern (see Walk in the Park) and marks the tempo with the bass guitar – instead of the omnipresent Moog Taurus. The melody calls back to Il Cielo in una Stanza, Gino Paoli’s eternal classic and quintessential staple of Italian music from the Sixties. The strange thing is that the lyrics of Il Cielo in una Stanza fit perfectly when describing the feelings of absent-mindedness, dream and immensity induced by Beach House’s music:[/column]
This room no longer has walls, just trees, trees endlessly […] this purple ceiling disappears, it’s no longer there / I watch the sky above us as we stay here / and we’re alone as if there was nothing else in the world / a harmonica is playing, it sounds like an organ, vibrating for you and for me/ high in the deep blue sky.
[column size=”2/3″ center=”yes”]Another perfectly circular perpetual motion is in PPP, one of the album’s highlights. A perfect hook sets the tone for a constantly moving carousel and a sixties/seventies-style theatrical spoken word lyric (reminiscent of the introduction to Françoise Hardy’s Message Personnel), heralding a tune we just wish could last forever. With its simply magnificent closing section, PPP embodies the illusion of making a perfect and unique moment be eternal and allowing it to occur again (it won’t last forever or maybe it will, sings Victoria) acting as a frame for a recurring theme in their lyrics: let’s go on pretending that the light is neverending – we still have the summers in All The Years, from the album Devotion; it happens once and rarely twice in Wishes, from Bloom; until the quintessential Silver Soul, with its heartbreaking chorus of it is happening again.[/column]
[column size=”2/3″ center=”yes”]The wish for a feeling to be repeated is also stated with returning symbols: the wheel, waves and the sea, flowers, dreams, all elements of a circular and recurring nature that mark the coordinates where their fictional world operates, creating a dreamlike fantasy epic. Wildflower and Beyond Love are tracks that rightfully belong to the world of fable, a stupendous and regal ascent towards an enchanted realm reminiscent of the film Labyrinth. Unexplored and distant universes, and at the start of this article we were mentioning Japan. Bluebird and 10:37 have a sound and an atmosphere that recall the Orient, thanks to their concentrated stride and to an air of solemnity. The keyboards in 10:37 recall the sound of tubular bells, while Bluebird offers a guitar line that points towards Ryuichi Sakamoto’s unforgettable Forbidden Colours.
As we approach the final track we have to admit that Beach House’s end tracks always have something characteristic: it’s immediately clear that we’re reaching the end. Just take the overwhelming Take Care or the impossibly epic Irene. For their farewell, Beach House bring the expression “repetita iuvant” to its highest degree, and Days of Candy is no exception. From a musical standpoint, this is Beach House’s most sublime, lyrical and articulate track ever recorded. An 8-voice choir introduces an ancient-sounding harmony while Victoria’s voice takes flight and reaches unexplored peaks that not even Julee Cruise had approached with Falling, taking the song towards cohesive ad-lib and a teary-eyed guitar.
This finale is where the mono no aware touches our hearts as the cherry tree’s petals land on the ground: these days of candy live in your mind, Vic sings. These days of splendour and sweetness, much as the summer, are going by and, little by little, becoming memories. All that remains is to replenish the wait for a new season, a new year and a new blossoming, and in the meantime preserve the sacred feeling of the present – which is both the wait for the future and a wait that has ended.
Just like that/it’s gone.
Grazie a Robin Fernandez per la traduzione in inglese[/column][/expand]