In una calda sera di fine agosto i Tame Impala approdano per la prima volta a Roma, in una location – l’Ippodromo delle Capannelle per il Postepay Rock in Roma– sovradimensionata se rapportata alla loro fama in Italia ma gremita di passione, attesa e curiosità in modo più che percepibile.
È il mio battesimo live di una delle band che più ho ascoltato in questo lustro e che – piaccia o meno – sta segnando musicalmente questa prima parte di decennio pur riportando in auge suoni che vengono dritti dal secolo scorso.
Se infatti il sensazionale esordio Innerspeaker riprendeva magistralmente la psichedelia settantiana e il secondo Lonerism pescava a piene mani dal pop lisergico di fine anni Sessanta (chi ha detto Beatles?), con il terzo disco Currents Kevin Parker – frontman e amministratore unico del progetto – è approdato verso nuovi lidi dove è affiorata prepotentemente quella componente elettronica già presente nelle opere precedenti e che qui si tinge ancor di più di R&B e di ammiccanti echi anni Ottanta. Lì dove erano le chitarre a traghettare la nave oggi ci sono i synth. Sempre nel nome del pop, sempre con quell’attitudine psichedelica che connota il percorso musicale intrapreso dall’australiano nel 2007.
I puristi storcano pure il naso, ma parlare di psichedelia in senso lato con riferimento ai Tame Impala è cosa buona e giusta, e non solo perché proprio dall’uscita di Innerspeaker centinaia di band neo-psych si sono affacciate sul mercato, facendo profilare un verosimile intasamento nel futuro più prossimo.
La psichedelia è nella cura maniacale del suono sia su disco sia dal vivo, nella loro dilatazione sviaggiona alla cui mercé analogico e digitale si sfidano a duello. Ogni volta che ho ascoltato i dischi di Parker mi sono chiesto da dove saltassero fuori certi suoni: la spiegazione live offerta ora dal moog ora da una batteria così riconoscibile fra tante mi ha sorpreso.
La psichedelia è nella rimescolanza chimica di influenze disparate: Beatles, Syd Barrett, synth-pop, chitarroni, falsetto à la Bee Gees e groove di scuola black si sono fusi senza paura, dando vita a un risultato dannatamente contemporaneo che sembra il frutto di una bizzarra e dopata macchina del tempo. Disco dopo disco, ingranaggio dopo ingranaggio, tassello dopo tassello.
La psichedelia, se vogliamo, è anche nel ménage familiare, quasi da “collettivo”, dei Tame Impala e della “scena” di Perth, testimoniato dalla presenza come opening act di uno strabiliante Nicholas Allbrook, a suo tempo membro della band e attualmente frontman di quegli ottimi Pond i cui componenti sono gli stessi musicisti che accompagnano dal vivo Kevin Parker e che danno vita al “paradosso” live del gruppo che su disco è un progetto solista.
La psichedelia è, infine, in un look che sarà anche omologato ma che vuol rimandare precisamente a una certa idea di suono e all’attitudine di un passato ben definito, dal taglio di capelli ai piedi scalzi del frontman sul palco.
L’errore che si commette, tacciando i Tame Impala di essere un Bignami per principianti della psichedelia, è dimenticarsi dell’onnipresente, mai nascosta vocazione pop di Kevin Parker e sottovalutare il suo approccio da produttore innamorato della materia sonora del suo progetto. C’è una sincera idea di evoluzione nel percorso che ha condotto i Tame Impala da Innerspeaker a Currents – tangibile anche scorrendo tra alcuni titoli dei brani, Yes I’m Changing su tutti – resa al contempo autorevole da conformità d’intenti e dall’inebriante profumo di libertà che ammanta le scelte artistiche di Parker.
Come confermato dal concerto romano i brani dei tre album coabitano con coerenza all’interno di uno show tutto incentrato sul Suono: dopo una fredda ma già affascinante Let It Happen, da Mind Mischief in poi la resa live è dapprima degna del disco e con il trascorrere dei minuti persino migliore del disco, fino alla lunga spaziale chiusura di Nothing That Has Happened So Far Has Been Anything We Could Control. I visual guidano il concerto e l’esperienza sensoriale, seppur soffocati in alcuni momenti dalle luci. Non c’è movimento da parte dei musicisti se non qualche progressione verso il pubblico di un Parker mai sopra le righe eppur capace di relazionarsi istintivamente coi fan, dai sinceri ringraziamenti alle battute sui condom gonfiati a mo’ di palloncino.
È nella tripletta It Is Not Meant To Be – Elephant – The Less I Know The Better il fulcro ideale del concerto: in ordine cronologico con un estratto per album si ripercorre un’epopea fatta di pop, rock, psichedelia e elettronica dove ogni elemento sembra voler predominare senza riuscire mai a prendere il sopravvento. I brani del passato incontrano le evoluzioni sonore più recenti e si lasciano contaminare con naturalezza. Continuità nella discontinuità. Nel concerto dei Tame Impala convivono attenzione per i dettagli e libertà musicale, sentieri ben delineati e schegge impazzite, fluire magmatico costante e improvvise eruzioni di colore e di suono. È un ordine perfetto creato da mille innumerevoli disordini.
Feels Like We Only Go Backwards – il primo bis concesso – è l’emblema della naturale predisposizione pop di Kevin Parker: il pubblico trasognato di Capannelle canta all’unisono il brano ed è proprio questa emozionante immagine che suggella nella mia mente la grandezza di un artista sì devoto al passato ma con lo sguardo rivolto verso orizzonti inediti ancora da scoprire e i piedi ben saldi in un presente mutevole e affascinante tutto da cesellare.
Non so se nei prossimi decenni l’australiano sarà ricordato come una divinità o semplicemente come uno tra i protagonisti musicali di questo periodo, certo è che in questo momento i Tame Impala non sono un abbaglio ma vera luce splendente da cui mi aspetto di rimanere ancora una volta sbalordito e conquistato, come è puntualmente successo grazie alle sfumature intense e cangianti di Innerspeaker, Lonerism e Currents.
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